Giusi Quarenghi
Il “Ceppo” in tre parole /3

Corpi Nomi Luce

“Basuràda” è l’ora in cui il tramonto si avvicina e «il giorno pare già precipitato nella sera». Ma all’improvviso la luce riesplode, simile all’aurora. E “Basuràda” è il titolo della raccolta con cui la poetessa lombarda concorre al Premio Ceppo Poesia

Corpi «Perché i versi non sono, come si crede, sentimenti. Sono esperienze»: così Rainer Maria Rilke nei Quaderni di Malte Laurids Brigge. I versi dunque fanno, di quello che ci capita, esperienza, nel senso che le danno corpo e ne sono quel che resta, significante e vivo: corpo sensibile, messo al mondo e che mette al mondo, che è messo al mondo dalla lingua e che, grazie alla lingua, nomina, chiama, conosce, riconosce, apprende, ricorda, immagina, trasforma. In Basuràda (Book Editore, 2018), corpo è ogni «offerta nuda di tutto quel che / è vivo solo per un po’» e in questo «solo per un po’» sta la sua consegna, il suo limite, la sua contingente assolutezza e unicità che lo rendono «carne della tenerezza», quella che l’angelo invidia agli umani, per la fragile predilezione creaturale che sollecita e di cui può essere e fare esperienza. Corpi grembo sono il cielo e la terra, il silenzio e la luce, l’acqua e la neve, matrici capaci tanto di generare quanto di riassorbire, di dare vita e di riprenderla. Grembo, in questo e in quel movimento. È grembo quello dell’inizio e grembo è quello della fine. E noi siamo insieme feriti e curati da questa intima e misteriosa contiguità tra vivere e morire, tra i vivi e i morti.
Corpo è la voce e corpo è la lingua: voce e lingua legano le parole e le cose, ne fanno esperienze. I corpi sono la storia, ne portano scritti gli errori e il giudizio, in tempo reale; la tragedia scrive e lascia segno più della gioia, l’insipienza più della ragione. Ma è dei corpi, soprattutto dei corpi, il potere passione, e compassione. Corpo è il paesaggio, corpi sono i paesaggi, con le vene dei sentieri e delle acque, con le umane figure degli alberi. Corpo è la corale dei respiri, neonati infanti ragazzi maturi vecchi e appesantiti dagli anni. Corpo è il tempo, e il tempo è del corpo: sono l’uno il volto dell’altro. Corpo l’essere qui e corpo il non essere più, la mancanza e il desiderio. «È per via dei corpi che rimango. Niente è come loro».

Nomi – Comunemente usiamo le parole per spiegare le cose. «Per i poeti le parole sono cose», dice invece Vittorio Sereni. E Wallace Stevens si augura «Una poesia della realtà pura. Non un’idea della cosa ma la cosa stessa». E dunque i nomi. I nomi che dicono e chiamano, danno forma e contengono, evocano prefigurano e fanno essere, possono fare dell’assenza presenza e assenza della presenza, svelano e rivelano, espongono e proteggono le cose come le persone. Ogni nome porta con sé, in sé, e traduce fino alla libertà di tradirla, un’ontologia, un orizzonte destinale di quello che nominano. A insegnarcelo sono le lingue, e l’antico gesto del nominare. E forse, quella caratteristica dei numeri primi, la divisibilità solo per se stessi, il che vuol dire che procedono interi e non riducibili, vale anche per i nomi, parole prime della poesia: con precisione frattalica inseguono l’indicibile e ne scommettono, rischiando e rischiandola, la navigabilità. Chiamare per nome ed essere chiamati per nome è legame: conoscenza e riconoscenza. Se come dice Iosif Brodskij, nel suo discorso di accettazione del Nobel per la poesia del 1987 (Dell’Esilio), «La poesia è il nostro fine antropologico, la meta della nostra specie», dovremmo parlare e far parlare solo i nomi, solo le parole proprie. Tutto il resto non è che contrabbando basso e strumentale.
Dire i nomi è dare realtà, esistenza e consistenza, sostanziare durata, stare e trattenere al di qua della morte o farcene attraversare, e attraversarla. Chissà che non sia anche lei di passaggio, come la vita. E poi c’è il nome impronunciabile, “dio”, nome, parola prima, che credo Wallace Stevens abbia chiamato «la poesia più alta dell’umanità», a condizione che non si sappia chi è, dimori quietamente e in silenzio: luogo del vuoto e dello svuotamento, del non possesso, «colmo e vulnerabile / di ogni differenza» abbia fede, lui per primo, nell’uomo, nei «nomi umani del suo splendore», che qui si chiedono con Giorgio Caproni se non «Sta forse nel suo non essere / l’immensità di dio?». Da bambini ci offrono i nomi, li cerchiamo, li troviamo. Da vecchi, li perdiamo. Ma forse è solo restituzione.

Luce – «Vasta e gialla la luce serale», scrive Anna Achmatova: è il primo verso della prima poesia dalla quale mi sono sentita dire «Sii come me», così Josif Brodskij sulla capacità rivelativa della lettura di poesia (Dolore e ragione, Adelphi). Ero appena adolescente, e quella poesia entrò in confidenza con me fino a chiamarmi ad assomigliarle. Non nel senso di ripetere l’esistenza alla quale la poesia alludeva, ma di desiderare di vivere in modo che, quali fossero le condizioni e le contingenze, potesse farsi e stare in forma di poesia; così come la poesia di Anna Achmatova aveva fatto e stava facendo del vivere di lei, comunicandolo anche a me, in modo luminoso e illuminante. «Vasta e gialla la luce serale» mi accompagna da allora e mi ha fatto da guida fin «Là [dove] / Il buio è così buio / Che non c’è oscurità» di Giorgio Caproni (La lanterna). La luce, che non è in opposizione ma in sorellanza con il buio, mi si è fatta «oscura madre» e ho con lei appuntamenti che cerco di non perdere. L’aspetto nello stupore di ogni alba; la temo fino allo struggimento nelle “basuràda”, quando il giorno pare già precipitato o scivolato nella «luce buia» della sera e invece, all’improvviso, la direzione s’inverte radicalmente e la luce riesplode, nella sera, in forma quasi d’aurora. È una luce perturbante, che fa di ogni altra luce “ombra”. Una perfezione che non dà scampo, le va riconosciuto. Insegna a diffidare delle imitazioni e a inchinarsi alla «luce dei sassi», «al cuore di luce piena», a una luce «tutta di vento», alla «luce sigillo» di un ragazzo buio, alla «bocca di luce» della finestra, «all’arco fermo dello splendore» della notte, a quella «luce di terra» che è la neve…

(Nella foto Giusi Quarenghi)

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