Nike Gagliardi
Su “Vita e destino di un poeta con la chitarra”

Canto per l’Arbat

Una bella monografia di Giulia De Florio riporta l'attenzione su Bulat Okudžava, poeta e “cantautore” sovietico che, anche sfidando il destino, riuscì a cantare gli ultimi dell'Arbat, la più autentica e popolare via di Mosca

«Ogni poeta non fa che parlare di sé. Ogni grande poeta, parlando di sé, racconta chi siamo». Questo il suggestivo incipit che apre le pagine introduttive di Bulat Okudžava. Vita e destino di un poeta con la chitarra (Squilibri, 2018, 128 pagine, 22 euro), della slavista Giulia De Florio: la prima monografia in italiano dedicata a una delle più influenti figure della canzone russa dell’ultima metà del XX secolo. Poeta, romanziere, autore di testi per il cinema e il teatro e cantautore, la sua vita si intreccia fittamente alle trasformazioni dell’Unione Sovietica: una parabola che va dal periodo del Grande Terrore e che, passando attraverso la seconda guerra mondiale, la morte di Stalin, il XX Congresso del Partito Comunista e il rapporto segreto di Chruščëv, toccando via via tutte le tappe della guerra fredda prima e del disgelo poi, giunge fino alla dissoluzione dell’URSS.

Tutto questo lasciò sulla persona e sulla vita di Bulat Okudžava tracce dolorose e permanenti. Di tutto questo, fu osservatore critico, la cui originale prospettiva si tradusse spesso in profonda insoddisfazione rispetto a prese di posizione pacificate e costanti. Egli fu in grado di distillare, tanto nella forma breve delle proprie poesie quanto nelle canzoni, l’enormità degli sconvolgimenti che avvenivano nel Paese e che si abbatterono a più riprese sul suo vissuto e su quello delle persone a lui più vicine. Lo fece attraverso storie minime, attraverso lo sguardo degli ultimi, del popolo dell’Arbat, la via che rappresenta il cuore dell’omonimo quartiere moscovita e che nelle canzoni di Okudžava assurge a una dimensione mitica, trasfigurazione fiabesca di un reale avvilente. È qui che si trova la corte-cortile (grazie all’ambiguità di cui si fa latrice la parola dvor – come sottolinea la De Florio – in grado di rendere possibile la convivenza di due ambiti semantici distanti in un unico termine) dell’infanzia e dell’adolescenza.

All’interno della monografia i contenuti sono suddivisi secondo un criterio cronologico, partendo dagli anni, decisivi, della giovinezza: 1924-1940. Bulat, per metà georgiano e per metà armeno, proviene da una famiglia pervasa da una fede assoluta nel Socialismo. Vivrà le prime contraddizioni del regime stalinista sulla propria pelle: prima con l’arresto e la fucilazione del padre (della quale però sarà informato solo successivamente) e poi con la deportazione della madre, durata in tutto diciannove anni, nell’inferno dei Gulag.

Non ancora compiuti diciotto anni, riesce ad arruolarsi e a partecipare al secondo conflitto mondiale. La sua finalità è semplice e disperata: «in quel momento infatti non ha ancora notizie del padre e della madre, come molti figli di nemici del popolo si convince che arruolarsi volontario possa essere un modo per riparare il danno, cancellare l’onta e salvarli».

Nonostante egli combatta per appena tre mesi, tornando dal fronte ferito e con un fagotto di ulteriore disincanto tra le mani, paradossalmente diverrà uno dei più evocativi cantori della guerra, facendo di quest’ultima uno dei nodi centrali della sua arte, scrivendo versi in grado di evocarla e contemporaneamente di metterne in luce gli aspetti più meschini:

Non credere alla guerra, ragazzino,
non crederle, è triste,
è sporca, ragazzino,
è stretta come gli stivali.

Ma sono gli anni Cinquanta a veder fiorire le prime liriche e i primi brani musicali di Okudžava, a vedere questo intellettuale evolversi in una figura di difficile individuazione: poeta, consulente letterario nell’unione artistica “La fiaccola” (“Fakel”) legata alla rivista Il giovane leniniano (Molodoj leninec), iscritto al Partito Comunista (all’interno del quale non avrà mai vita facile a causa della propria vicinanza agli ambienti della cultura clandestina), alla sua parabola ufficiale in qualità di letterato fa da contraltare la vicenda del «bardo, cantante, autore di canzoni e chitarrista», la cui reputazione si allarga a macchia d’olio durante un’epoca, quella post-staliniana, in cui la canzone russa inizia a respirare aria nuova, per quanto in maniera sotterranea. Gli ambiti in cui il cantautorato aveva possibilità di esprimersi liberamente erano infatti quelli sostenuti e protetti dagli appassionati, nutrito dal «canto da circolo» e da esecuzioni casalinghe e clandestine: fu infatti attraverso il magnitizdat, ovvero la diffusione “illegale” di nastri (la versione musicale del circuito samizdat) al fine di evitare la censura, che il canzoniere di Okudžava riuscì a scansare i controlli sovietici e, passando di mano in mano, a consolidare la sua fama nel resto dell’URSS fino a varcarne le frontiere e atterrare in Europa.

Nel repertorio musicale di questo “canta-poeta” l’afflato ironico e quello malinconico sono spesso le due facce della stessa medaglia mentre, con l’andar del tempo, nel resto del suo macrotesto poetico-narrativo, la vena critica e fosca si fa sempre più presente, specie quando le speranze di una maggiore libertà e apertura da parte del PCUS sembrano svanire, quando i tentativi di dare al socialismo “un volto umano” si tramutano nel tragico epilogo della Primavera di Praga del ’68. E ancora alla fine, dopo l’emorragia migratoria dei Settanta, durante gli Ottanta e poi con la perestrojka di Gorbačëv, l’incertezza e le grandi speranze, la crisi e le pesanti ripercussioni economiche sulla vita delle persone. Di tutto questo, Okudžava sarà testimone sofferente e attento, fino al 1997, anno in cui si spegnerà: come tanti grandi russi prima di lui non potrà mai rinunciare all’amore per la propria patria – che è anche e soprattutto uno stato dell’anima – né esimersi, allo stesso tempo, dall’avvertire i tranelli celati sotto ogni nuova promessa politica di progresso e modernizzazione.

Quello che ci offre Giulia De Florio non è soltanto il racconto dell’avventura biografica del cantore dell’Arbat e nemmeno un’analisi – che pure non manca e che, nel fornirci un quadro d’insieme, non perde in accuratezza – dei suoi testi tanto narrativi quanto poetici e cantautorali. L’autrice ci guida invece attraverso un itinerario più ricco, che ha la sua ragion d’essere nel continuo dialogo con la cultura, la letteratura e la musica russe del Novecento (e non solo, considerato l’amore dichiarato da Okudžava per alcuni dei giganti della letteratura ottocentesca).

Ad arricchire questo volumetto, due documenti d’eccezione su cd. Il primo consiste nella preziosa registrazione del concerto di Bulat Okudžava al Teatro Ariston in occasione del Premio Tenco 1985 con tanto di presentazione e di recitazione dei testi tradotti da parte di Duilio Del Prete. Le avvincenti vicissitudini che fecero sì che il cantautore partecipasse a quell’edizione del premio sono peraltro magistralmente raccontate da Sergio Secondiano Sacchi in uno dei due interessanti scritti – l’altro è di Alessio Lega – preposti alla trattazione monografica della De Florio: «La lunga strada che portò a Bulat»,

Un ulteriore documento sonoro di importante valore storico è costituito dalle registrazioni clandestine a partire dalle quali nel 1965 Michele L. Straniero e Clara Strada composero l’EP Un nastro da Mosca 1960-1967. Canzoni del disgelo cantate da Bulat Okudžava.

Progetto gemellare, sempre edito dalla Squilibri e uscito in contemporanea a Bulat Okudžava. Vita e destino di un poeta con la chitarra, è il cd-book Nella corte dell’Arbat. Le canzoni di Bulat Okudžava, in cuiil cantautore Alessio Lega rende un tributo importante al bardo russo, riuscendo a far rivivere nella nostra lingua, così lontana, i brani musicali che valsero all’artista una fama quasi di “caposcuola”.

Inutile dire che la monografia, con i due preziosi documenti acclusi, e naturalmente il disco di Lega costituiscono le tappe imprescindibili all’interno del percorso conoscitivo di chiunque voglia approfondire o anche solo avvicinarsi per la prima volta sia a ciò che fu e che rappresentò, nel soffocante clima politico sovietico, la canzone d’autore, sia a quella complessa e poliedrica figura d’artista che tante volte riuscì a catturare nello spazio di pochi accordi e di una manciata di versi «il canto e la giustificazione di un Paese che non c’è più».

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