Raoul Precht
Periscopio (globale)

Bioy Casares e gli altri

Da Goethe a Hofmannsthal, la storia della letteratura è piena di "libri di pensieri" fatti di frammenti e citazioni. Ma su tutti svetta la genialità di Bioy Casares che ha trasformato un capriccio in un genere

BIn principio, come spesso accade, fu Goethe. Inizialmente il Divano occidentale-orientale avrebbe dovuto intitolarsi “Libro degli amici”, poi Goethe cambiò idea, ma il concetto si sarebbe sviluppato lo stesso, sia pure in modo diverso da quanto aveva previsto. Ispirandosi alla proverbiale ospitalità persiana, la sua intenzione era quella di fare del Divano una specie di offerta, di dono, che gli amici, persone con gusti affini ai suoi, avrebbero certamente gradito. Se Goethe si limitò ad abbozzare l’idea senza poi realizzarla, o senza farlo completamente, un altro gigante della letteratura tedesca, Hugo von Hofmannsthal, se ne servì invece al momento di compilare appunto il Buch der Freunde (Libro degli amici), in cui l’aspetto goethiano del dono fatto ad altri di proprie composizioni sarebbe stato affiancato e arricchito dalla raccolta e proposta di testi altrui. Riunire in un libro massime, citazioni, aforismi di coloro che consideriamo amici perché vicini a noi nel sentire o nelle aspirazioni o nelle esperienze di vita, così come tralucono dai loro scritti più che dalle opere concrete (di cui legittimamente possiamo anche tutto ignorare), e in qualche modo farli propri – non spacciarli per propri, che è cosa diversa e rasenterebbe il plagio -, questo il compito, la finalità che Hofmannsthal si propose di perseguire. Nel suo giardino prosperano così un centinaio di piante di ogni tipo e di ogni epoca – nel senso che vi sono accolte riflessioni di autori antichi come di contemporanei – ed esse convivono armoniosamente, a volte accompagnate da glosse dello stesso autore. Con diversa metafora si è anche detto che, attraverso i loro aforismi, gli autori riuniti da Hofmannsthal, proprio perché di epoche e provenienze diverse, ingaggiano una conversazione che oggi definiremmo virtuale, confrontano esperienze di vita e modi di pensare che diventano automaticamente propulsivi, spingono cioè il discorso sempre più in là, verso vette che l’inizio della discussione o della conversazione non avrebbe mai fatto immaginare, creando paradossalmente una visione del mondo unitaria che è molto vicina a quella dell’autore.

Nel mondo anglosassone esistono – paralleli ai “libri degli amici” – i cosiddetti “commonplace books”, ovvero degli album o taccuini tenuti per annotarvi qualunque tipo di riflessione o di riferimento, comprese mappe geografiche e ricette di cucina. Il più conosciuto è quello di John Milton, una raccolta di proverbi, mentre nel 1706 John Locke scrisse addirittura un manuale, che doveva servire a dare indicazioni ai profani per tenerne uno. Altri libri di questo tipo compilati da autori famosi sono quelli di Ralph Waldo Emerson e di Henry David Thoreau, per fare solo qualche esempio. Da noi un parente stretto può essere considerato lo zibaldone, compreso naturalmente quello leopardiano, raccolta sterminata (ma questo genere non prevede limiti) e asistematica di pensieri e appunti.

Spesso e volentieri queste raccolte servivano da serbatoio di idee e spunti ai quali il poeta o scrittore avrebbe prima o poi attinto. Sulle centoquattro citazioni contenute in Sur Plusieurs Beaux Sujects, il “commonplace book” di Wallace Stevens, per esempio, di ventidue si è potuto documentare l’evidente utilizzo in successive poesie, lettere, conferenze o saggi, e altri affiorano qua e là, più abilmente celati, a mo’ di fonte d’ispirazione. Stevens, che ha tenuto i suoi taccuini dall’inizio degli anni ’30, parla senza esitazioni di un “compost pile”, che gli serviva quindi per concimare la propria ispirazione e far sbocciare o maturare nuovi frutti poetici. Sempre per restare ai poeti del Novecento, qualcosa di simile farà anche Wystan Hugh Auden con il suo A Certain World, dove le citazioni altrui, catalogate per argomento, si mescolano a un approccio che lo stesso Auden definisce autobiografico.

Certo, si potrebbe obiettare che questo gusto della citazione altrui comporti una rinuncia all’originalità, ma è un falso problema. In un libro del 2008 che non mi risulta sia mai stato tradotto in italiano, Dietario voluble, Enrique Vila-Matas ricorda una netta presa di posizione del filosofo Fernando Savater, il quale sostiene che il massimo dell’originalità sta proprio nella scelta, fra le tante possibili, della citazione giusta. Ai nostri tempi è ridicolo poter pensare, scrivendo, d’inventare qualcosa di sana pianta, e questa dell’originalità a tutti i costi è una suprema sciocchezza. Chi si esime dal citare, dice Savater, non fa che ripetere comunque quanto è già stato detto da altri, ma senza saperlo, e senza aver quindi scelto in piena autonomia a quale sorgente abbeverarsi. Mentre, per converso, chi cita con cognizione di causa ammette implicitamente di sapere tutto quel che sa grazie ai libri letti nel corso della sua vita e paga il doveroso tributo a chi per lo stesso impervio sentiero è passato prima di lui. Dall’altra parte dei Pirenei, a Savater fa eco lo scrittore e psicanalista francese Michel Schneider, per il quale (molto borgesianamente) ogni autore è il fantasma di un altro e ogni libro lo specchio di un altro libro. Del resto, come scriveva la poetessa rumena Ana Blandiana, “Niciodată / Când văd o vorbă gravidă / Nu ştiu cine e tatăl” (“Mai / quando vedo una parola gravida / so chi è il padre”).

Un maestro di questo genere sui generis è stato sicuramente Adolfo Bioy Casares (ABC per gli estimatori), scomparso quasi esattamente vent’anni fa, l’8 marzo del 1999. Amico, sodale e soprattutto, direi, complice di Jorge Luis Borges, è stato il co-autore, con lo pseudonimo comune di Honorio Bustos Domecq, dei famosi gialli che ruotano intorno al personaggio di don Isidro Parodi nonché, stavolta senza pseudonimo e con il contributo aggiunto della moglie Silvina Ocampo, dell’Antologia della letteratura fantastica. Inoltre, con la sua attività di giornalista, traduttore e autore (in proprio) di numerosi racconti e di una mezza dozzina di romanzi – tra cui vanno ricordati almeno Piano di evasione, Il sogno degli eroi, Dormire al sole e L’invenzione di Morel, da cui Alain Resnais trasse nel 1961 il film L’anno scorso a Marienbad –, Bioy Casares è stato un protagonista indiscusso della letteratura argentina del Novecento.

Voglio ricordarlo non per le sue fortunate opere di narrativa, tuttavia, ma per aver dato forse il massimo compimento al genere o sottogenere di cui parliamo qui, ovvero la raccolta di frammenti da opere di altri autori. Lettore e collezionista appassionato, nel corso dei suoi ottant’anni di vita Bioy Casares ha infatti riempito una serie di taccuini con frammenti di ogni tipo, in versi e in prosa, dialoghi, sentenze, proverbi, canzoncine popolari, ritornelli, ricordi di conversazioni avute con Borges, e perfino trascrizioni di graffiti, accogliendo ecumenicamente davvero di tutto, mescolando senza alcuna remora livello alto e livello basso, sacro e profano, giustapponendo autori noti a perfetti sconosciuti, il distillato dei lambiccamenti dei più raffinati filosofi alla volgarità di iscrizioni lasciate a uso dei posteri nei bagni di un edificio pubblico, con l’intenzione capricciosa e stimolante di restituire alla letteratura l’aleatorietà della vita. Gli importava solo – supremo metro di giudizio – che i frammenti in questione gli parlassero, lo facessero ridere o piangere, gli ispirassero una riflessione, lo colpissero, insomma, o costituissero in qualche modo una lezione di vita.

Ecco qualche esempio preso quasi a caso, così com’è apparentemente casuale l’ordine in cui Bioy Casares dispone il proprio materiale. Disse Mauriac a proposito della morte di Cocteau: “Mi ha sorpreso il fatto che potesse fare una cosa così naturale, semplice e imprevista come morire.” Una frase lapidaria di Italo Svevo: “Lei avrà pure ragione, ma è un imbecille.” Qualche consiglio, poi, per gli aspiranti scrittori: “Chi non è capace di limitarsi non sarà mai capace di scrivere” (Flaubert in una lettera a Louise Bouilhet); laddove invece Wodehouse avverte che “lo svantaggio con cui molti nuovi scrittori devono fare i conti è di non saper scrivere”, e Samuel Butler precisa nei suoi Notebooks: “Non m’infastidisce la menzogna, ma odio l’inesattezza.” Da Sartre viene ripreso il concetto secondo cui “l’inferno sono gli altri”, da Lichtenberg la definizione di asino: “un cavallo tradotto in olandese”. Non manca ovviamente il ricordo delle conversazioni con Borges ed esempi del suo esprit, come questo che segue: “I ricordi di una sola persona, dimenticati definitivamente, esistono o no? Sono esistiti o no?” Neanche Dio è risparmiato: come rinunciare allo splendido distico di Robert Frost: “Forget, O Lord, my little jokes on Thee / And I’ll forget Thy big great one on me.” Splendido a questo proposito anche l’epitaffio ritrovato nella Cattedrale di Elgin, in Scozia: “Here lie I, Martin Elginbrod, / Have mercy on my soul, Lord God; / As I would do, were I Lord God, / And ye were Martin Elginbrod.”

Dalle stelle alle stalle, adesso (anche questa strofa popolare non necessita di alcuna traduzione): “Amar sin ser amado / Es un placer tan nulo / Como limpiarse el culo / Sin antes haber cagado.” Del resto, poco dopo si cita Giovenale: “Difficile est satiram non scribere”. L’umorismo a volte è involontario, come nel caso dell’anonimo amico di Bioy (una fonte orale, stavolta) che gli confessa di “vivere per fare un piacere al mondo” e con questa frase accede immediatamente e con sommo diritto all’olimpo dei grandi pensatori. Quanto al sesso, a darne un’idea basta la dichiarazione di un militare statunitense: “Fare l’amore con una giapponese è come la masturbazione, ma è molto più solitario.” E l’amore? Beh, per dirla con Macedonio Fernández: “Non ci innamoriamo di una donna, ma di una situazione.” Termino questa breve carrellata con le ultime parole di Lord Palmerston: “Morire, mio caro dottore? Sarà l’ultima cosa che farò.”

Il libro s’intitola De jardines ajenos, è uscito due anni prima della morte di Bioy Casares, nel 1997, e per quanto ne so non è mai stato pubblicato in Italia. Potrebbe essere una delle non poche lacune editoriali da colmare, magari proprio in occasione di questo ventennale.

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