Loretto Rafanelli
L’esordio di Elisabetta Pigliapoco

Puri moti dell’anima

Una raccolta pensata in anni di lavoro e di riflessione sulla scrittura e sul pensiero di moderni e contemporanei. “La luce di taglio” dell’autrice marchigiana, docente di letteratura italiana, ha ora preso forma, ed è una prova di sicuro valore che segna una nuova presenza nell’universo poetico

La poetessa Elisabetta Pigliapoco, quarantenne marchigiana di Monsano, dopo molti lavori critici e una collaborazione con Umberto Piersanti all’Università di Urbino, ha pubblicato infine il primo libro di poesia: La luce di taglio, con l’editore milanese Archinto. Ne diamo volentieri conto e rileviamo subito che è una prova di sicuro valore, una nuova preziosa presenza nell’universo poetico femminile marchigiano (con la Stefanini e la Mancinelli, per citarne doverosamente alcune) e nazionale. Un libro che colpisce per vari aspetti, innanzitutto per la grazia, per la delicatezza, per la misura; quindi per il suo dire del mondo e della natura («nella vasta faggeta che declina/ appena, tra erbe basse e chiare»). Natura fatta d’incanti («Attraverso il gelso/ intravedi ancora/ trame bianche d’aria») e di bellissimi paesaggi colmi di stupore: «La luce taglia spighe/ chinate nell’incedere/ intenerito della sera,/ si riempie di bagliori/ vagoni che avanzano lenti/ il fragore di rulli, ingranaggi/ che della messe faranno raccolto». Versi cosparsi di un languore profondo, nello spazio magico di cieli e mari sospesi nel vento. Una raccolta dove la poetessa riesce a inoltrarsi nel magma duro e ansimante della condizione umana.

Versi mediati da una voce penetrante e accogliente, mai inclinati nella retorica o nel ‘sensazionalismo’ poetico, oppure sconfinanti nell’ermetismo di maniera. Una poesia che ha un ritmo dolce e sinuoso («Il volo basso delle rondini,/ traiettorie concave/ a soffocare cime d’erbe/ ancora chiare»), che accosterei al cantilenante parlare marchigiano, che è un parlare incantato, a mio modo di vedere («…il parlare/ ora lento e pacato s’accendeva/ del rosa degli alberi d’aprile/ riflessi sull’acqua ferma, domestica»); o che ha le stimmate del suo paesaggio, ondulato e abbeverato dal mare, congiunto alle onde adriatiche che occhieggiano ai colli («e quell’onda sola/ che troppo ha cresciuto il tempo/ ora il vento spinge e gonfia,/ sa che l’equilibrio è tutto/ ma si sporge in avanti/ a indovinare un destino…»).

Un libro sentito, inoltrato nel profondo del proprio scorcio di vita, tra affetti familiari e sensuali visioni, tra ricordi e incontri, in una estrema ricerca di una impossibile tranquilla speranza. Nella ricerca di un impossibile baricentro, se non forse quello della propria terra, di un equilibrio come scrive in questa poesia: «L’equilibrio è un taglio orizzontale/ tra la gola e il petto./ È la bolla d’aria ferma/ in mezzo alla livella/ quando neanche il respiro/ è più certo». Poesie vissute nei filamenti di una pura armonia. E di dolore («Si nutre così il dolore:/ lasciandolo sospeso,/ lo guardi in faccia un attimo/ prima che si sveli…»). Puntato con lo sguardo a ciò che più si insinua nel proprio sentimento. Poesia sincera, mai pretestuosa, o costruita. Una raccolta che ha in sé una meditazione lunga e profonda. Così ci appare La luce di taglio, e possiamo dire di un libro teso alla ricerca di una propria forma, che pensiamo sia senz’altro visibile.

Nell’introduzione, ampia e profonda, Giancarlo Pontiggia, come si sa poeta e critico di grande valore, afferma: «… il passo di questo libro nudo, spoglio, meditato in ogni sua parte, che aspira a penetrare nel cuore e nella mente dei suoi lettori, ma non a sopraffarli: la poesia d Elisabetta Pigliapoco è sempre un moto dell’anima…». Forse una sintesi perfetta di quello che è questo libro, pensato per anni. Anni di lavoro, di attenzione, di studio della scrittura e del pensiero dei poeti contemporanei e dei secoli passati, in primis Leopardi, anni di riflessione (peraltro la Pigliapoco è docente di italiano) sul significato della poesia e della scrittura in generale. E sappiamo quanto sia importante passare attraverso lo studio della poesia per giungere infine a definire la propria voce.

Un dettato delicato e lineare, eppure irto di incroci complicati, sofferto anche perché il velo di tristezza che emerge non è un inciso, un manto marginale e secondario, ma un tono di colore che penetra e si diffonde a larghe falde, battendo il suo torvo suono con perentoria precisione, con lacerante scadenza. Come nella poesia iniziale con quel passaggio bello e inquietante: «Ma dentro s’alza/ un vento impercettibile/ come quello che alla sera/ agita i bambini/ e li fa piangere». Come quando mostra il suo sguardo all’incedere del tempo, quella «primavera che è sempre/ due passi più in là» o quell’estate settembrina che si inoltra nel finale di stagione quando i «giorni maturi cadono dai rami/ ebbri di sole e calore/ figli di un’estate che scompare/ rubando il tempo alla luce».

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