Danilo Maestosi
Mentre il ministero taglia il Maxxi

Quale arte a Roma?

La nomina di Maria Vittoria Marini Clarelli alla Soprintendenza Capitolina riapre il dibattito sulla gestione dell'arte (non solo quella contemporanea) a Roma. Tra Macro, Maxxi e Galleria Nazionale di Valle Giulia

La salute dell’arte contemporanea a Roma? Altalenante come la valutazione di queste notizie che recuperiamo dal relativo silenzio nel quale sono scivolate via. Notizie che aprono più di un interrogativo sulla gestione complessiva della cultura nella nostra città, che più di altre per la su storia sconta un costante conflitto tra fughe verso il futuro e ritorni al passato.

La prima è la nomina di Maria Vittoria Marini Clarelli alla guida della soprintendenza comunale. Una scelta in controtendenza. Negli ultimi anni questo ruolo era stato affidato a esponenti provenienti dal mondo dell’archeologia: da Carlo Pietrangeli, ad Eugenio La Rocca, gran padrino della campagna di scavi ai Fori imperiali, fino a Claudio Parisi Presicce promosso a questa carica dalla direzione dei musei capitolini, passando – negli anni della giunta Alemanno – per Umberto Broccoli uno specialista di divulgazione radiotelevisiva. Esclusiva giustificata dalla necessità di meglio tutelare l’autonomia di questa carica sul delicato fronte dell’anomalo ma consolidato o sdoppiamento di competenze tra stato e Campidoglio nella gestione delle aree archeologiche centrali.

Maria Vittoria Marini Clarelli, storica d’arte (nella foto), viene da altre esperienze e si è costruita una solida reputazione di equilibrio e buona amministrazione alla guida della Galleria d’arte moderna di valle Giulia, da cui è stata estromessa dal ministro Dario Franceschini per consegnarne le redini a una sua pupilla, Cristiana Collu. Quest’ultima ha di fatto smantellato il vecchio museo nazionale, riordinandone le raccolte e le sale in un nuovo controverso allestimento: cancellato ogni criterio cronologico, tele e sculture raggruppate ed esposte con associazioni fin troppo attente al colpo d’occhio, un cartellone molto orientato verso il contemporaneo con una marcata invasione di campo oltre i confini degli anni sessanta del Novecento, sui quali la Galleria si era attestata per evitare conflitti e concorrenza con il Maxxi di via Guido Reni, nato proprio come vetrina privilegiata dell’arte di oggi. Ora le quotazioni della Collu in attesa di riconferma sembrano in forte ribasso. E certo il ripescaggio della Clarelli, dopo un immeritato letargo all’ufficio studi del Ministero, non contribuisce a rialzarle.

Intanto, si aprono nuovi scenari per la gestione dell’antico a Roma: si riavvicina forse la possibilità di riunificare finalmente in una cabina di regia comune e magari in un sistema di ingressi condiviso l’assetto e la sistemazione dell’area archeologica centrale. L’assessore alla cultura pentastellato Luca Bergamo si è già espresso a favore. Il nuovo ministro Alberto Bonisoli, anch’esso grillino, fa invece ancora il pesce in barile. Il fatto è che per i nuovi gestori della politica culturale della capitale la sorte del patrimonio archeologico e storico sembra al momento solo fonte di imbarazzo: costosa e insufficiente l’opera di tutela e manutenzione, nessun serio progetto di riqualificazione e rilancio dell’area dei Fori, che pure per la sua rilevanza e la sua capacità di attrazione turistica dovrebbe essere priorità e obiettivo cardine di ogni intervento.

La conferma della situazione di stallo in atto viene dalla singolare disputa in corso sulla destinazione dell’Arsenale pontificio sull’Ostiense. La Quadriennale di Franco Bernabè ci ha messo su gli occhi e lo reclama come sede della propria attività espositiva e istituzionale, un’alternativa all’uso del Palaexpo, storica vetrina dell’Ente, sul quale evidentemente ci sono altri piani. Quali? Mai come in questi anni la politica culturale della città è stata caratterizzata da quest’assenza di trasparenza, da questa confusione d’intenti. Contro questa eventualità di trasloco è nel frattempo insorta una nutrita pattuglia di intellettuali, capitanata da Adriano La Regina e Walter Tocci: quel padiglione – ricordano – vicino a Porta Portese e alla Portuense era da almeno trent’anni in predicato per un’altra destinazione, la creazione di un museo sulla storia del Tevere. Un progetto determinante per ricostruire la vita della Roma antica, e trovar posto ai cimeli e alle scoperte degli scavi condotti in passato sui porti della città antica e sui collegamenti con Ostia. Il vecchio contro il nuovo, un braccio di ferro assurdo e un pasticciaccio che ora la nuova soprintendente Marini Clarelli dovrà sbrogliare.

Ma torniamo all’arte contemporanea. E in particolare al Maxxi, che è perno e tempio principale dell’intero sistema romano consacrato all’arte di oggi. Quando è nato, a colmare un vuoto ingiustificabile rispetto a tutte le altre capitali d’Occidente, il suo ruolo sembrava chiaro. Chiara la ripartizione di compiti rispetto alle altre istituzioni gemelle o comunque orbitanti nello stesso campo, sorte ex novo come il museo comunale del Macro, o rimodellate come la Galleria nazionale di via Giulia. Il Maxxi doveva fare da apripista e da asse di collegamento con il circuito del contemporaneo, il Macro esplorare con particolare attenzione voci e tendenze espresse dagli artisti che gravitavano in città, la Galleria nazionale fare da cerniera storica tra la produzione della prima metà del Novecento e del secondo Ottocento, documentate dalle sue collezioni. Una coabitazione fra tre macchine molto costose, messe in moto in tempi di vacche più grasse, che è completamente saltata.

Portato al naufragio il Macro, che ora per risorgere sta sperimentando una nuova strada di collegamento con la città e il presente, sotto la guida a tempo di un autore antropologo come Giorgio De Finis; dirottata vistosamente verso direzioni apertamente concorrenziali disegnate dalla vocazione curatoriale verso il contemporaneo di Cristiana Collu la Galleria nazionale; incerto il futuro del Maxxi, affidato da qualche anno alla guida di Giovanna Melandri che pure doveva essere la passerella più proiettata al futuro. Ad azzopparlo – è la prima notizia che lo riguarda – è stato il taglio dei finanziamenti diretti deciso dal ministero: un milione e mezzo di euro in meno. Perché? il titolare del ministero, il grillino Bonisoli, prodigo di presenze a inaugurazioni a cerimonie ufficiali, non lo ha spiegato. La crisi, certo, ma riequilibrata da quale strategia complessiva per l’arte contemporanea, in crisi d’identità anch’essa eppure alimentata nella grande maggioranza dei paesi europei da forti sostegni pubblici e privati, con una scommessa sul futuro che altrove non si è esaurita?

Togliere fondi non è un segnale incoraggiante. E rischia di frenare il faticoso processo per la costruzione, in una città poco dinamica e arroccata sul passato come Roma, di un pubblico per l’arte di oggi che il Maxxi ha avviato: duecentomila visitatori paganti con un salto in avanti del 12 per cento – più o meno la stessa cifra di presenze dichiarata dalla Galleria nazionale della Collu – ma oltre il doppio ad includere gli ingressi gratuiti alla collezioni e alle altre numerose iniziative gratuite. E un amo gettato con successo da manifestazioni mirate alla platea dei giovani e degli studenti: ventiduemila spettatori. Il guaio è che si sta di nuovo affermando nella gestione della politica culturale l’idea che l’unica cosa che conta sia il rendimento immediato di ogni operazione: la cultura come una merce qualunque.

La sforbiciata di bilancio ha costretto la direzione del Maxxi a rivedere i suoi programmi, varando un cartellone per la prossima stagione visibilmente ridotto e rinviando il progetto di creare una succursale del museo a l’Aquila nella sede di palazzo Arlinghetti, come volano di un rilancio del dopo terremoto. A sfogliare i titoli delle 13 mostre in locandina è evidente la rinuncia alle rassegne di ricognizione internazionale dei linguaggi di oggi e di esplorazione dei fronti di conflitto delle aree mediterranee, che erano tra gli elementi più caratterizzanti del nuovo corso impresso dal direttore artistico Ho Hanru. Un vuoto che sicuramente impoverisce l’offerta romana e risucchia la capitale a provincia periferica.

Anche nella scelta delle iniziative di maggiore impatto sembra prevalere l’idea di puntare su nomi del panorama italiano: Giò Ponti, Paola Pivi, un’artista che lavora sull’immaginario fotografico, Paolo di Paolo, fotografo e gran testimone dell’ultimo Novecento e del trapasso al nuovo Millennio, Maria Lai, una grande autrice sarda che ha fatto da originale apripista all’irruzione di materiali legati all’uso domestico e alla creatività femminile (nella foto accanto), Sandro Cucchi, capofila della transavanguardia alla ribalta da quasi mezzo secolo, chiamato a presentare una sua recente istallazione. E infine una collettiva riservata ai grandi guru, da Boetti a Joseph Beuys, che hanno inseguito la feconda pista dello spirituale nell’arte.  Insomma una scelta di usato sicuro e autarchico che nel campo in continua trasformazione della produzione contemporanea declassa il Maxxi in posizioni di retroguardia.

Potrebbe non essere un male. Magari l’occasione per ripensare ai guasti e alla disaffezione provocati dalle ambizioni di monopolio di una casta di curatori che controlla gli snodi del sistema dell’arte, relegando gli artisti a pedine senza voce, e il tempo lento di filtro della storia a variabile impazzita e manipolabile di marketing.

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