Danilo Maestosi
Al Palazzo delle Esposizioni di Roma

L’arte è uno slogan

Julian Rosefeldt, con un'installazione composta da tredici filmati interpretati magistralmente da Cate Blanchett, gioca con l'enigma delle avanguardie. Quando l'arte si esprimeva per parole chiave concetti complessi...

Che cosa resta e che valore assegnare ai proclami con cui a partire dal primo Novecento molti artisti di punta hanno preceduto e accompagnato le loro opere? Un flusso di slogan, invettive, sfide al buon senso, dichiarazioni d’intenti e profezie che si è in gran parte interrotto nell’ultimo scorcio del secolo e nel trapasso al nuovo Millennio quando il sistema dell’arte ha convinto o obbligato gli artisti a farsi da parte per cedere il posto a critici e mercanti modaioli, ma si è lasciato alle spalle una scia di parole in libertà, sovraccariche di echi e significato. Sono i meteriali con cui Julian Rosefeldt, 54 anni, un talentuoso cineasta tedesco, prestigiosa carriera internazionale in pieno sviluppo, ha confezionato tre anni fa un anomalo lungometraggio dedicato appunto ai manifesti di autori di tutte le tendenze d’avanguardia. Per poi smembrare le tredici scene di dieci minuti l’una di cui si compone e rimontarle in un istallazione con cui sta girando il mondo e che ora fa tappa a Roma nella grande sala d’ingresso che il Palaexpo gli ha messo a disposizione fino al 22 aprile.

Manifesto è il titolo al singolare con il quale l’autore ha voluto battezzare il suo copione in dodici siparietti più un prologo, ognuno dedicato ad un collage di frasi estratte da manifesti di vari movimenti che hanno attraversato con impeto rivoluzionario la scena dell’arte. «Perché – spiega Julian Rosefeldt, da qualche mese a Roma come borsista dell’Accademia tedesca di villa Massimo – al di là del valore che molte di quelle dichiarazioni ancora conservano, la vera forza di quel coro di voci che nel film ho collazionato in vari capitoli sta a mio avviso nella rabbia demistificante che oggi può esprimere come argine alla devastante deriva dei populismi che domina il nostro Occidente. E al quale proprio qui in Italia state pagando un dazio pesante».

In realtà la vera grande attrazione di quest’istallazione, il colpo d’ala che la rende imperdibile, è un’altra: il coinvolgimento nell’impresa e nel cast di una star d’eccezione: l’attrice australiana Cate Blanchett, due premi Oscar e tre Golden Globe in carriera. È lei ad interpretare le dodici parti in cui il regista ha scaglionato la trama e la sua personalissima rivisitazione delle diverse avanguardie, declinata al femminile proprio per attenuarne le impronte maschiliste dei manifesti confezionati per un pubblico di soli uomini. Un funambolico esercizio alla Fregoli al quale Cate Blanchett ha prestato, per spirito militante e senza alcun compenso, il suo volto scavato ed ossuto e il suo corpo magro e scattante.

Lo spettacolo va in scena in un tunnel buio, illuminato solo dallo sfarfallio di tredici grandi schermi, davanti ai quali ci si può sedere. Sul primo scorrono a mo’ di prologo le vampate di un rogo, tra le cui fiamme crepitano quattro citazioni guida: «Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria» ci ammoniscono Marx ed Engels; «Per lanciare un manifesto bisogna volere ABC, scagliare invettive contro 123… firmare, gridare, bestemmiare, dimostrare il proprio non plus ultra… Sono per la contraddizione continua e anche per l’affermazione, non sono ne favorevole né contrario e non dò spiegazioni perché detesto il buon senso», ci guida e ci dirotta Tristan Tzaracon la sua ironia di poeta dada. Sugli altri dodici si esibisce il talento di Cate Blanchett. La metamorfosi più vistosa sullo schermo subito accanto, dove l’attrice si camuffa addirittura da barbone che sputa sentenze sullo sfondo di un casermone in costruzione abbandonato e già in macerie. I testi di riferimento ci rimandano alla rivoluzione dei situazionisti, con un evocazione piuttosto criptica e poco coinvolgente.

Davvero geniale invece la scena inventata per chiamare in campo il movimento dada: un funerale. La gente che si raccoglie attorno alla bara e una donna in gramaglie (la Blanchett ovviamente) li aggredisce di insulti, minacce e provocazioni. Scelta indovinatissima: nessuna avanguardia ha raggiunto meglio lo scopo di predicare le proprie esequie ed il sogno di assistervi.

Altro schermo, altro guizzo da mattatrice. Eccola a centro tavola presiedere al pranzo di una famigliola borghese, figli paffuti e obbedienti, il marito che taglia un pollo arrosto, mentre il sonoro ci rimanda queste parole di Claes Oldemburg, uno dei santoni della pop art: «Sono per l’Arte spendi di meno, per l’arte mangia meglio, l’arte del prosciutto e quella del maiale, arte del pollo, arte del pomodoro..». Peccato che il sonoro che fa da contrappunto sia solo in inglese, reso confuso dall’accavallarsi di altre voci degli schermi accanto. Niente sottotitoli. Come molti artisti, Julian Rosefeldt è un filmaker esigente e un po’ presuntuoso: gli spettatori si arrangino! Per decifrare il senso dei suoi dodici corti e la loro colonna sonora ci vuole tempo e attenzione, almeno un paio d’ore e forse di più. Ma poi in qualche modo l’autore corregge il tiro e ci viene in aiuto, allestendo e suggerendoci una sorta di gioco. All’ingresso i dodici capitoli del film sono stampati con le parole delle citazioni copia incolla dei manifesti cui fanno riferimento. Per abbinarli alle scene bisogna lasciarsi guidare dalle foto su in alto del personaggio interpretato dalla Blanchett  e da una breve didascalia che ne definisce il ruolo e il lavoro. Ma sono istruzioni per l’uso che funzionano solo all’uscita. Succede che a invitarci a leggerle sono solo le impressioni che più si sono fissate nella memoria.

Di che movimento ci parla la burattiniaia che costruisce e allinea sul suo bancone marionette che impersonano personaggi famosi. Del surrealismo ci spiega il titolo. Ma questo era abbastanza semplice indovinarlo. Più complicato applicare la targhetta dell’arte concettuale alla conduttrice televisiva che dialoga con un ospite piazzato su un balcone sotto la pioggia  al riparo di un ombrellino che lascia grondare giù l’acqua. O cogliere il riferimento al suprematismo e al costruttivismo nella scienziata, tuta bianca antivirus, che si aggira tra i macchinari di un gigantesco laboratorio. O ancora il richiamo al futurismo affidato alla figura di una broker che regola i flussi di borsa. O quello al nihilismo del gruppo Fluxus nella coreografa che arringa stizzita le sue ballerine che sgambettano dentro costumi da automi.

Insomma una scommessa. Un gioco. Ma un gioco abbastanza stimolante che a fine percorso può davvero spingere molti a leggere la cartellina che contiene una per una tutte le citazioni dei testi. E ci riporta alla domanda di partenza. Perché gli artisti hanno sentito il bisogno di affidarsi ad un linguaggio così diverso per dare un senso al loro riconoscersi in comunità e un bersaglio alle loro opere. E perché non lo fanno quasi più?  E funzionano ancora quelle parole, a volte folgoranti, altre piene di retorica, che annunciavano la fine della Storia o l’avvento di una nuova Storia?

Facebooktwitterlinkedin