Luca Zipoli
Visto al Teatro India di Roma

Un racconto triste

Dal 7 al 10 febbraio la Compagnia dei Giovani del Teatro Stabile dell’Umbria ha portato in scena il “Racconto d’inverno” di Shakespeare, per la regia di Andrea Baracco. Da tempo impegnato in un lavoro di reinterpretazione di grandi classici del teatro, il regista ha fatto della pièce una favola nera, un dramma cupo dal lieto fine solo apparente

Dramma romanzesco, tragicommedia, commedia dal sapore amaro. Difficile definire la natura del Racconto d’inverno, uno degli ultimi titoli della produzione shakespeariana e forse tra le opere più enigmatiche del Bardo. Composto da un insieme di personaggi in cui compaiono un tiranno nevrotico e sanguinario, una pastorella figlia di re, un clown che si fa beffe di ingenui contadini e una statua che su alcune note musicali prende vita, il dramma si presenta come un caleidoscopio di vari generi teatrali, la gioiosa provocazione di un drammaturgo che, al termine della sua carriera, si diverte a mescolare le carte di tutti i suoi drammi precedenti. Il Racconto appare quindi un’opera sfuggente per definizione, imprendibile, soggetta a molteplici interpretazioni proprio perché ambisce ad essere al tempo stesso tutto e il suo contrario.

Favola nera. È questa la definizione che per il dramma sceglie Andrea Baracco, il regista che lo ha portato in scena al Teatro India insieme alla Compagnia dei Giovani del Teatro Stabile dell’Umbria. Nella lettura del regista, il dramma appare come una storia raccontata da Mamillio, figlio di otto anni del re Leonte, che narra la vicenda attraverso la voce fuori campo di Adriano Baracco, insicura e quasi mormorata per restituire i tratti di un fanciullo fragile e angosciato. La favola narrata è «nera», infatti, perché il bambino è destinato a una fine prematura a causa della gelosia del padre, che lo allontana dalla madre, presunta fedifraga, facendolo così morire di turbamento e di dolore (sul palco Mamillio è icasticamente rappresentato da un automa muto). Leonte, «smisurato protagonista» nelle parole del regista, è convinto a tal punto che la moglie lo abbia tradito con l’amico fraterno Polissene, che in preda al suo delirio di gelosia tenta di avvelenare l’amico, fa morire la moglie di dolore e manda a morte la figlia che lei ha appena dato alla luce. Reincarnazione di Otello, sobillato però non da Iago ma solo dalla una psiche instabile, il magistrale Ludovico Röhl ha restituito in maniera eccezionale gli aspetti maniaci e nevrotici del personaggio, impersonandolo con una voce esasperata ed eloquenti espressioni del viso. Da segnalare anche le interpretazioni di Luisa Borini, una ferma e lucida Paulina, dama di compagnia della regina e artefice del ravvedimento del re, e di Jacopo Costantini, nei panni del clown shakespeariano, che in versione rockstar sopra le righe ha dato movenze e tratti convincenti all’unico elemento comico del dramma.

Se è vero che proprio la presenza del fool nel testo stempera la drammaticità della prima parte e che in ultimo la tragedia volge a buon fine, è d’altra parte vero che le conseguenze nefaste della follia del re non vengono cancellate: il piccolo Mamillo, a differenza della madre, è morto per davvero, Antigono, il suddito incaricato dal re di uccidere la figlia, è stato sbranato da un orso, Paulina, moglie di lui, resterà a soffrire per sempre per questa perdita. La voce fuori campo, nel chiudere il dramma, richiama gli spettatori proprio su questi snodi funesti della trama, rompendo così l’illusione di una conclusione idilliaca delle vicende rappresentate. A sottolineare l’atmosfera lugubre in cui è inserito il dramma contribuiscono anche le scene e i costumi, curati da Marta Crisolini Malatesta con la collaborazione dei suoi allievi della Scuola di scenografia dell’Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci” di Perugia. La scenografia trasporta l’ambientazione mitica del racconto originario in una dimensione contemporanea, e si presenta essenziale, minimalista e dominata da tinte fosche e cupe. La sottolineatura del tono lugubre della storia raggiunge un picco troppo enfatico solo nel momento in cui la scena viene invasa da tanti teschi che rotolano sul palco e attorniano visivamente il re Leonte. L’allestimento appare però perfettamente consono all’idea registica e le scene minimali favoriscono l’immedesimazione dello spettatore, che in questa oscurità funerea è chiamato ad ascoltare una storia amara, ma che è anche specchio fedele della complessità dell’animo umano. D’altro canto, è Shakespeare stesso a dirlo: «un racconto triste è meglio per l’inverno».

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