Sergio Buttiglieri
Visto al Teatro Municipale di Bologna

Geometria Bob Wilson

Un bellissimo "Trovatore" verdiano messo in scena da Bob Wilson è stato contestato dai soliti melomani: passano i decenni, ma la grande avanguardia ancora non trova spazio in un mondo che cerca solo vuoti stereotipi

“Pietra miliare del teatro sperimentale mondiale”, come lo ha definito il New York Times, Bob Wilson fu scoperto in Europa nel ’76, al Festival di Avignone, con Einstein on the beach, uno spettacolo creato in coppia con il musicista Philip Glass, una rivoluzionaria opera contemporanea. E l’Italia quella volta arrivò prima dei francesi: già nel ’74 infatti Wilson aveva debuttato al Festival dei Due Mondi di Spoleto in prima mondiale con A letter for Queen Victoria, uno spettacolo in quattro atti contrapposti dove l’elemento guida è il tempo, e protagonista è un ragazzo autistico che Wilson era riuscito a far esprimere nella sua matematica genialità, al di fuori di ogni schema. Rivendicando così al teatro e a se stesso una funzione maieutica e socratica; convinto, com’è tutt’ora, che un bambino nasce con la conoscenza dentro di sé.

Il suo è un teatro programmaticamente di gesti e di immagini, non testuale o di parola, un tipico prodotto della storia americana e del babilonico caos linguistico che essa ha accumulato; un frutto di questo paese di immigrati da ogni parte del mondo in cui spesso ci si comprende più facilmente per immagini che a parole. Bob Wilson dice di sé che avrebbe voluto essere un buon pittore, ma non lo è. E allora usa il teatro, la scena, per realizzare quadri: ogni suo allestimento è prima di tutto un disegno, gli attori e i cantanti vengono disposti proprio nel punto previsto per loro dai suoi disegni. “Per me Bob”, diceva Heiner Muller, grande autore tedesco fra i più radicali, con cui Wilson in passato ha interagito, “ha la stessa funzione del cubismo nell’arte figurativa: serve da impianto di depurazione, vi si passano al setaccio i mezzi teatrali e improvvisamente prendono corpo nuove forme e nuove tecniche. Ma sarebbe da stupidi volerlo copiare, certe cose le può fare solo lui”.

Nelle sue note di regia alla magnifica produzione del Trovatore, che abbiamo visto in scena al Teatro Municipale di Bologna,  racconta come in gioventù l’ultima cosa che avrebbe pensato di fare era mettere in scena Verdi. Pensiero che smentì successivamente avendo poi prodotto con successo ben quattro sue opere realizzando come la sua musica ha un’intimità e una grande bellezza interiore che non aveva assolutamente bisogno delle stereotipate grandi produzioni spesso inutilmente sfarzose e intrise di romanticismo.

Ciò che a Wilson piace del Trovatore è che non abbia uno sviluppo fluido. Che anzi si dipani in quattro blocchi simmetrici in cui Verdi riesce a farci percepire tutti i conflitti all’interno dell’opera. Nel Trovatore, il nostro compositore di Busseto esalta le dinamiche triangolari dei suoi personaggi che spesso e volentieri si sovrappongono magistralmente mostrando a noi la loro sorprendente modernità.  Ci ritroviamo davanti una donna, Leonora (una magnifica Marta Torbidoni, ampiamente applaudita durante i suoi assoli) , tra due uomini: Manrico (il bravo Diego Cavazzini, prisma di personaggi differenti) e Il Conte di Luna (Vasily Ladyuk, leggermente ingessato, ma efficace nella sua canonica antipatica parte). Triangolo che si intreccia ad un altro, composto da un uomo (Sempre il Manrico di cui tanti italiani hanno ereditato il nome di battesimo da genitori melomani, quando Verdi era il trasversale pane quotidiano dell’immaginario italiano sia delle campagne sia delle cittadine) e le due donne della sua vita: la iconica Azucena ( interpretata molto bene da Cristina Melis) e da Leonora stessa.

Questa struttura verdiana ben si combina col modo architettonico denso di variazioni e di intuizioni luminose (“La luce non è una cosa a cui penso in un secondo momento, non è una decorazione , è struttura”) in cui lavora il regista americano. Le sue regie ad alta densità formale si concentrano sullo spazio. Non a caso, sempre nelle sue note allo spettacolo, Wilson ci rivela che “spesso quando vado a vedere l’opera faccio fatica ad ascoltare i cantanti o l’orchestra, gran parte di ciò che è in scena è superficiale e melodrammatico, troppo elaborato”. “È la costruzione tempo-spazio che mi interessa nelle opere di Verdi. Le sue opere sono molto precise, non c’è una singola parola o singola nota superflua, tutto è molto concentrato.”

Questo suo Trovatore, diretto egregiamente da Pinchas Steinberg, è caratterizzato da una messa in scena ispirata dalle cartoline vintage e popolata di gente comune del diciannovesimo secolo, gente che Verdi avrebbe visto in città e nei paesi limitrofi. Un uomo anziano seduto, una vecchia signora alla fontana, una giovane ragazza che spinge una carrozzina: queste figure silenziose vivono in un altro mondo, un mondo di ricordi.

Wilson lavora sulla saggezza essenziale della fiaba, e quest’ultimo Trovatore, macchina perfetta del suo teatro, lo ha confermato ampiamente. Per la precisa gestualità, memore anche del teatro delle marionette, ad esempio nella posizione delle mani dei cantanti , sempre come appese al suo filo registico… E per la gestione del palcoscenico, completamente privo di arredi, ma colmo di luci trascoloranti, di movimenti coreografici, diviene inevitabile l’associazione al magico mondo poetico dei film di animazione di Michel Ocelot. Il suo piccolo capolavoro del 2000, Princes et Pricesses, contiene decise assonanze con la poetica di Bob Wilson alle prese con una delle opere più conosciute di Verdi.

Per Wilson, che come ci raccontava lui stesso si è formato con i grandi nomi della danza americana, da Merce Cunningham a Balanchine, dentro una tradizione teatrale che non conosce le nostre forme di resistenza, è di estrema importanza la categoria “tempo”, la sua relativizzazione, la scomposizione dell’attimo in secondi e millesimi di secondo; da lui si può imparare lo smembramento del teatro nei suoi elementi, l’anatomia del tempo teatrale. Il suo è un teatro interno alla dialettica di libertà e meccanizzazione.

Ora Bob Wilson, questo architetto prestato alle scene, è accerchiato, quasi alienato dal successo, (è impressionante la mole di lavori che ha in questo momento in tournée in giro per il mondo) ma non smette di farsi domande. Al contrario il problema dei registi europei è tutto qui: fanno solamente quello che sono in grado di fare, ma questa è veramente la fine: “si può fare teatro solo tentando di realizzare quello che non si è in grado di fare”, ci ricordava ancora Muller. Ed è per questo che siamo tutti curiosi di rivederlo all’opera con un suo nuovo lavoro spero presto in Italia, nonostante ancora tanti melomani – come abbiamo purtroppo visto a Bologna durante l’ultima affollatissima replica – si siano dimostrati platealmente ostili a questa regia, urlando improperi imbarazzanti verso questo indiscusso maestro della regia contemporanea. A quanto pare l’apporto registico nell’opera è ancora oggi un tabù per molti amanti della lirica, nostalgici delle produzioni sempre uguali a se stesse. Tutto secondo loro deve rimanere immutato. E registi come Wilson danno ancora tanto fastidio.

Le prolungate urla di dissenso, dalla platea e dai palchi del Municipale, che ho sentito contro questa regia, in particolare durante un singolare intermezzo coreografico, tra un atto e l’altro (con tanti attori che si rincorrevano emblematicamente vestiti da pugili con tanto di guanti scarlatti, metafora piacevolissima della estrema irrisolvibile conflittualità dei protagonisti del Trovatore) sono sconfortanti e non sono certo utili a invogliare i teatri italiani a riportare in cartellone regie raffinate e non convenzionali come quelle di Bob Wilson.

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