Nicola Fano
A proposito di “Disorganici”

Il Novecento mancato

Filippo La Porta stila il catalogo degli intellettuali dimenticati nell'Italia stretta tra marxisti e cattolici ortodossi. Un libro che riflette sui limiti della formazione culturale (critica e creativa) di una intera generazione

«La sinistra ha perso quasi ovunque attrattiva, eppure, se rielaborasse il meglio della sua stessa tradizione – intrecciandolo con quello di altre tradizioni – e se si impegnasse, come auspica Langer, a dare spazio “alle molte voci dei piccoli, alle voci del Sud, alle voci di coloro che non scelgono di gridare e che non hanno più fiato per farlo”, allora potrebbe ritrovare una verità profonda che riguarda tutti». Si conclude con queste parole, scaturite dal pensiero di Alexander Langer, il nuovo libro di Filippo La Porta, Disorganici. Maestri involontari del Novecento, Edizioni di storia e letteratura, 201 pagine, 12 Euro. Si chiude con questa improvvisa discesa (una delle poche) sul terreno specifico della politica attuale. Ma non è un libro dedicato all’analisi dell’oggi: almeno non in modo diretto; è un manuale di cattiva formazione compilato all’incontrario. Cioè: è un catalogo di tutti quelli che ci siamo scordati – o, meglio, che i più si sono scordati – negli anni cruciali tra Sessanta e Settanta. Sarebbe a dire quegli anni nei quali si sono formati quanti, ora, dovrebbero fornire chiavi di lettura di questo orribile presente.

Conosco Filippo La Porta (nella foto accanto) ormai da tempi lontani: ma non abbastanza per averne condiviso la formazione. E leggere questo suo nuovo libro proprio a quella stagione mi rimanda. Disorganici, infatti, mette in fila una serie di ritratti di intellettuali eclettici (Noventa, per esempio, oppure Guido Calogero, o Rosario Bentivegna) o tradizionalmente non allineati (Silone, Orwell, Koestler, Garboli) e veri e propri maestri rifiutati (Carlo Rosselli, Nicola Chiaromonte). Di altre figure apicali e di riconosciuto magistero nell’ambito della cultura del secondo Novecento, poi, La Porta fornisce una lettura tangenziale e inedita: parlo soprattutto di Carlo Levi e Primo Levi. Insomma, è sufficiente questo breve inventario di nomi per capire la sostanza della rivendicazione di La Porta: sottolineare (senza mai alzare la voce) ciò che una generazione di intellettuali italiani ha ignorato. Abbacinati dal primato marxista, molti di noi hanno preso per buone le raccomandazioni dei padri dividendo il mondo in buoni e cattivi: i buoni pensavano al futuro, gli altri no. Ecco, La Porta abbatte questa impostazione e la sua premessa filosofica. L’errore è stato dare per scontato che l’uomo fosse “buono”, che i suoi limiti e difetti fossero passeggeri o emendabili. Insomma che c’aspettasse, comunque, una radiosa aurora. S’è visto, ora, a quale tramonto perpetuo abbiamo dovuto abituarci da più di trent’anni a questa parte.

Una considerazione mi ha colpito molto, in tale contesto: «La rimozione politica delle idee di Carlo Levi (nella foto accanto, ndr) – scrive La Porta – ci ricorda come nel ‘900 il marxismo abbia monopolizzato ogni critica alla borghesia e all’esistente (è stato forse il vero “pensiero unico” della sinistra)». Ricordo il fatto che certi tabù non si potessero mettere in discussione, tra noi giovani comunisti allevati a pane, realismo e Pci negli anni Settanta; e conosco anche la ruvidità umana che quell’atteggiamento ha prodotto poi in quei giovani, una volta cresciuti. Da un lato, oramai, vedo dissimulazione un po’ snobistica (quella che ha portato molti a vezzeggiare il grillismo senza percepire l’abisso di ignoranza che lo motiva), dall’altro l’incarognirsi in un passato mai passato. Alcuni di noi, eretici (ce n’erano, ma più per gioco che per convinzione), li chiamavano «i guardiani del museo della Rivoluzione». Ed eravamo gli stessi che – sia detto a mia parziale difesa – mal sopportavano l’epica dei nostalgici del Gruppo ’63, ossia «i guardiani del museo dell’avanguardia».

Ecco, il libro di Filippo La Porta avrei voluto leggerlo quarant’anni fa. Forse mi avrebbe cambiato la vita. Oggi mi fa soprattutto male, ma allora, forse, avrei guardato con minor timore a quella dimensione “spirituale” alla quale l’autore qui fa sovente riferimento: «Per Chiaromonte il problema ultimo consiste nel capire cos’è la realtà, nel saperla riconoscere. Per lui la realtà è qualcosa che mette in relazione l’individuo non solo e non tanto con gli altri (con la comunità) ma con “l’insieme delle cose – Natura o Cosmo che lo si voglia chiamare”». E colpisce il fatto che La Porta senta il bisogno quasi di giustificarsi spesso dicendo d’essere laico e non credente inquieto: in questo suo pudore c’è il segno di quegli anni Settanta di cui s’è detto. Anni in cui la spiritualità era tout court antitetica al materialismo: come se Kandisky, per dire, fosse stato un cattivo prete!

Si obietterà la mia ignoranza, lo ammetto; la mia formazione marxista facile e manichea («Per essere marxisti senza essere stalinista bastava essere brechtiani»). Mi prendo le mie responsabilità generazionali (ne ho già parlato, qui, a proposito di Addii, fischi nel buio, silenzi di Silvio Perrella, clicca qui per leggere l’articolo). Ma la questione è molto più stringente: La Porta si sofferma spesso sulla marginalità (indotta) del socialismo liberale in Italia dal 1948 in poi; sulla caduta del sogno azionista. La verità è che questo nostro disgraziato paese ha vissuto mezzo secolo con un meraviglioso paraocchi: quello messo su dalla contrapposizione manichea (ma funzionale tanto alla crescita del Paese quanto al mantenimento di un solido sistema di potere) tra cattolici e marxisti. Un paraocchi dal quale i “disorganici” erano esclusi per paura di contagio. Penso a molte parole perdute, oltre a spiritualità: emozione, morale, patria… Parole sulle quali questo libro di Filippo La Porta riflette senza infingimenti, senza timori; senza che la riflessione sia una resa dei conti. A proposito di Garboli (nella foto sopra), dice: «Nella Stanza separata si parla dei “veri padroni”, individuati nella borghesia, con i suoi “istituti moribondi e funerei” e la sua “follia rimossa”. Garboli per identificarli non ha bisogno di invocare l’ideologia, non si affida a nessuna dialettica storica o classe sociale salvifica. Piuttosto percepisce, anche dentro di sé, quella misteriosa “follia”, che probabilmente consiste nella cancellazione della realtà, in sé sempre indefinibile ma non perciò inesistente». Cancellazione della realtà: ecco il peccato troppo a lungo commesso.

E, come sono partito dall’oggi, risprofondando nel terribile oggi voglio chiudere questa nota. Dice La Porta, a proposito di Hannah Arendt (nella foto accanto al titolo): «Nella sua ultima elaborazione, che data verso la fine degli anni ’50, il male non coincide tanto con l’apatia politica, con il prevalere della sfera privata su quella pubblica quanto con l’assenza di pensiero». Assenza di pensiero: non è questo il nemico contro il quale, ormai privi dei nostri ferri del mestiere critico, siamo chiamati a combattere?

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