Alessandra Pratesi
A proposito di San Valentino

Cara Giulietta

In occasione della festa degli innamorati, una riflessione per tutti coloro che sono innamorati dell’amore, del teatro e del cinema. Due finali a confronto di due trasposizioni cinematografiche del classico dei classici di Shakespeare: “Giulietta e Romeo” di Renato Castellani (1954) e “Romeo+Juliet” di Baz Luhrmann 1996

«Ah, cara Giulietta, perché sei ancora così bella?». È il fatale quesito pronunciato da Romeo sulla tomba dell’amata. Poco importa, poi, se a pronunciarlo sia Laurence Harvey o Leonardo Di Caprio, o se a prestare i tratti alla dolce Giulietta sia Susan Shentall o Claire Danes. Secondario pure che l’ultima dimora della giovane sia un sarcofago in pietra grigia avvolto in un’umida oscurità, o un materasso circondato da un lezioso stuolo di candele post-kitsch. Eppure, sono questi gli elementi, agli antipodi, cui si trova confrontato lo spettatore della scena terza dell’atto quinto della celeberrima tragedia shakespeariana nelle versioni cinematografiche di Renato Castellani (Giulietta e Romeo, Leone d’Oro nel 1954) e di Baz Luhrmann (Romeo+Juliet, candidato all’Oscar per la migliore sceneggiatura nel 1996).

A distanziare le due pellicole non è soltanto mezzo secolo, ma i passi da gigante compiuti dalla settima arte: se Castellani è tra i pionieri del colore (la fotografia affidata a Robert Krasker), Luhrmann è tra i capifila del suo uso-abuso. La sobrietà trecentesca delle ambientazioni del primo non ha niente dello sfavillio carnevalesco ed esuberante del secondo. Alla maniacale ricostruzione storico-filologica dell’ambientazione condotta negli anni Cinquanta, viene preferita una moderna, ma forse un po’ distopica, Verona Beach, su di una altrettanto imprecisata West Coast. Entrambi i registi, però, condividono una preoccupazione di aderenza al testo e al suo spirito. Certo, Romeo-Harvey si dà la morte con il pugnale (invece che con il consueto veleno), mentre la pozione mortifera del Romeo-Di Caprio non ha effetto immediato e gli consente di dare un ultimo bacio di addio a Giulietta appena ridestatasi (si sarà ricordato di questa interpolazione Andrea Baracco, in scena all’Eliseo nel 2017?). Eppure, la recitazione assomiglia ad una declamazione in versi in cui le parole d’amore e di dolore di gusto elisabettiano non subiscono stravolgimenti eccessivi. Ne risulta un’intonazione storicistica e teatrale in Castellani, in Luhrmann un’aura di straniamento. All’accompagnamento musicale viene egualmente attribuito un ruolo chiave. Latente in Castellani, dove al risveglio di Giulietta è associata una musica a passo di danza che, come una madeleine di Proust, solletica la memoria dello spettatore e riporta a quel ballo galeotto in casa Capuleti dove tutto ebbe inizio. Patente, invece, in Luhrmann che all’elemento musicale sovrappone un montaggio di scene della prima parte del film per creare un flashback visivo, e non solo allusivo.

Numeri innumeri conta il testo di Shakespeare in quanto a rivisitazioni, riletture, riprese, riproposizioni. Classico imperituro della letteratura e del teatro mondiali, la tragedia di Romeo e Giulietta non ha ancora esaurito la sua carica emozionale e drammaturgica. Purché strappi una lacrima, purché strappi un sospiro, «perché mai storia fu cagione di più dolore di questa di Giulietta e del suo Romeo».

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