Lidia Lombardi
Il vincitore del Premio Nonino

Prenz, poeta del mondo

«Non mi interessano tanto i poeti quanto piuttosto quelli che amano la poesia. E sono attento più ai versi dei poeti dilettanti che a quelli di autori celebri»: incontro con Octavio Prenz, argentino, italiano, cittadino del mondo

Octavio Prenz, Premio Internazionale Nonino, ha 87 anni e una biografia anticonvenzionale, come tutto quello che dice. A consegnargli il 26 gennaio il riconoscimento creato dai distillatori di Percoto-Udine quarantaquattro anni fa è stato Claudio Magris. Un letterato e un uomo di frontiera come lui, che racconta di incontrarlo spesso al Caffè San Marco di Trieste, seduto a osservare i passanti, a comprare un accendino dagli immigrati. «Uno scrittore originale, che ha sempre fatto di tutto per non essere notato. E del suo essere altrove, in un tempo tutto suo, da subito l’ha certificato il suo atto di nascita, avvenuta, pensate, il 25 luglio 1932 alle ore 25», testimonia Magris sul palco del Premio, nel cuore della distilleria Nonino, tra gli alambicchi che fumano di grappa appena maturata. Qualche giorno fa La Nave di Teseo ha ripubblicato il romanzo capolavoro di Prenz, Il signor Kreck. Una storia fantastica e grottesca, kafkiana, ma insieme innervata negli anni bui della dittatura in Argentina. Kreck è un borghese mite, introverso, rispettoso delle leggi. Sposato e fedele. Ha un solo segreto: l’appartamentino preso in affitto per passarci il suo tempo dedicato a pensare, uno spazio per la mente. Allora, diventa oggetto delle indagini della polizia di regime. Ed entra in una realtà surreale, nata però in un preciso contesto storico-politico.

Prenz, dunque, ha passato la vita ad andarsene da un paese all’altro, da una casa all’altra. È nato ad Ensenada, in Argentina, da genitori istriani. Ha vissuto a Belgrado in due tempi, a inizio anni Sessanta e a fine anni Settanta. Ed è approdato infine a Trieste, dove ora vive. Ma questo suo ondivagare, questo lasciare la dimora («Un passo felice se è una scelta», ha scritto in una poesia) è connaturato al suo essere uomo, e dovrebbe esserlo per tutte le persone.

«Perché solo gli alberi hanno radici – dice Prenz replicando il titolo di un altro suo libro –. È una frase rivolta spesso a chi mi incita a dichiararmi unilateralmente argentino, jugoslavo o italiano, avendo io scritto in queste lingue e vissuto in paesi che le parlavano. Tutto nasce dalla mia diffidenza per le metafore facili, una delle quali fa dell’uomo un essere con radici. Ma se si tratta di usare metafore, allora perché radici e non ali? Perché non pensare che l’identità possa anche definirsi in funzione di un futuro da condividere piuttosto che di un passato da contemplare?».

Prenz, ma qual è il suo passato? Perché i suoi genitori sono finiti in Argentina?

Mia madre per amore, a diciannove anni, nel 1929 – risponde a Succedeoggi –. Però per lungo tempo non l’ho saputo. Raccontava di aver lasciato la sua terra per miseria, in cerca di lavoro oltre l’oceano. Soltanto mia figlia è riuscita a fargli infrangere il muro di silenzio. Partì per riunirsi al fidanzato, emigrato un anno prima. Ma lo cercò invano. Alla fine la notizia: era morto. Riuscì a farsi una vita, una famiglia. Il suo modo di essere autorevole con noi figli era il rispetto della nostra persona. E una discrezione estrema era il suo tratto distintivo. Avrei potuto costruirle un racconto addosso, ma la sua superiore normalità, come posso definirla, me lo ha impedito. Avrei dovuta inserirla in una storia più articolata. Così è rimasta solo ipoteticamente un personaggio da romanzo.

E suo padre?

Lui sì che emigrò per motivi economici. Era il ’28, l’Argentina gli si presentò come un Eldorado. Quando dal piroscafo avvistò la costa, si vestì con l’abito migliore. Ma lo fece in fretta. Appena scendi, gli dissero, salirai su un pullman. In due ore arriverai nel luogo dove ti daranno un lavoro. Lui era un po’ argentino come carattere: un gran parlatore, un estroverso.

Ha nostalgia di Buenos Aires?

Sì, ma come di tutte le città in cui ho vissuto. Buenos Aires però ha questo di speciale. È una città di libri. Basta viaggiare in metro per rendersene conto. Ci sono sempre tre, quattro persone immerse nella lettura. Ed è una città che ama la parola, che è abituata a teatralizzare la vita. Tutta l’Argentina ha vissuto a lungo cullandosi nella sua potenza e nella sua ricchezza. A Parigi, negli anni Venti, si diceva: ricco come un argentino perché quando arrivava in transatlantico qualche famiglia si portava appresso perfino una mucca, per dare ai figli il latte fresco. Si sono alternati periodi di prosperità e di decadenza, ma è rimasto il carattere frivolo della gente, delirante a tratti. Gli impiegati nella pausa pranzo fanno il barbecue, c’è perfino il campionato di asado, la carne alla griglia. E c’è l’idolatria per sei, sette personaggi, senza tener conto se hanno danneggiato il Paese: Evita Peron, Maradona… Il culto di queste personalità è la massima espressione del nazionalismo.

Tra loro c’è anche Borges.

Sì, è popolare, anche se non è facile. Parte della sua letteratura è capita da tutto il mondo, ma esistono pagine che solo chi è argentino può comprendere. Ecco allora la complicità con i connazionali. C’è poi un equivoco sulla letteratura fantastica nata in Argentina a metà del ventesimo secolo: che gli autori sappiano essere fantasiosi ma non profondi.

Ha conosciuto Borges?

È accaduto quando avevo diciannove anni. Facevo parte di un gruppo di poeti legati a Mastronardi, che Borges apprezzava. Lui era generoso: se qualcuno di noi gli portava un testo, lo leggeva, non si tirava mai indietro. Ma era crudele e ironico nel giudizio. Ci ha fatto bene.

Perché se n’è andato?

Accadde durante il governo di Isabel Peron, prima dell’arrivo della dittatura vera e propria. Era già attiva l’Alianza Anticomunista Argentina che sorvegliava chiunque fosse contro la destra di Isabelita. Ricevetti minacce di morte mentre insegnavo all’università de La Plata. Ma potevo io parlare di teoria della letteratura senza accennare a Marx, ad Engels, a Freud? Bastò questo per farmi perseguitare. Scelsi di trasferirmi a Belgrado, dove già ero stato dal 1962 al 1967, perché avevo ottenuto una cattedra. Non ho mai detto di essere un rifugiato politico. Le radici, ripeto, non contano. Dal ’79 vivo a Trieste, ho smesso anche di tifare Argentina quando gioca l’Italia.

Il Venezuela è in questi giorni nel caos, scisso tra Guaidò e Maduro. L’ennesimo incubo delle guerre civili in Sud America e dell’irrompere di dittatori.

Anche l’Argentina di Cristina Kirchner ha rischiato di imboccare la via del Venezuela di oggi. La strada del populismo è lastricata di pericoli. Maduro è un dittatore ignorante che si è presentato con la maschera di uomo della sinistra. Il fatto è che in America Latina sembrano impossibili transizioni politiche moderate, condivise. Sono tutte democrazie fragili, passano dalla estrema sinistra alla destra più feroce. Anche Bolsonaro non porterà nulla di buono in Brasile.

Ma sul Venezuela incombono anche le interferenze delle potenze mondiali.

Trump vuole rovesciare Maduro. Certo, deve pagare perché è stato un assassino e ha creato milioni di poveri in un paese ricchissimo. Ma la sua caduta deve essere opera del popolo venezuelano, messo in grado di ritrovare la propria voce.

Bergoglio, il papa argentino, è per lei un punto di riferimento?

Guardi, io sono agnostico. Ma riconosco in lui un uomo autentico, incapace di fingere, sollecito a fermarsi in strada a parlare con i più miseri di Buenos Aires. Dove ha vissuto modestamente e mi piaceva sentirlo dire di non essere povero perché aveva tutto ciò che gli serviva per campare. Quand’era arcivescovo, l’ho incontrato in uno studio televisivo, dove entrambi eravamo stati invitati. Sono stato contento di stringergli la mano. C’è una cosa che apprezzo particolarmente in lui, il senso dell’umorismo. E’ tipico degli argentini. Un esempio? A chi una volta gli chiese perché i preti non si sposano, rispose ammiccando: forse potrebbero farlo, ma devono mettere in conto che immediatamente avranno a che fare con la suocera. E poi, dove lo trovate un papa che polemizza con Scalfari e poi diventa suo amico?

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