Valentina Di Cesare
Incontro con un narratore atipico

Pardini, scrittore contro corrente

«Scrivo quello che mi passa nel momento. Poi avviene qualcosa che non so spiegare e la storia prende corpo. Non sono io che la guido, ma è lei che mi impone e mi comanda»: il mestiere di scrittore secondo Vincenzo Pardini

Lo sguardo sulla realtà che vado rintracciando da tempo nella scrittura di Vincenzo Pardini – uno sguardo inconfondibile, vero, incisivo – assomiglia sempre di più ad un lucido specchio di interrogativi e meditazioni, in grado di riflettere l’umanità senza alterarne alcun elemento. È per autori come Pardini che ha senso parlare di autenticità, laddove per essa si intende la capacità e il desiderio di ritrarre le vicende di luoghi e personaggi con un linguaggio asciutto e veritiero, privo di infarciture e artifici. Una lingua, quella di Pardini, che nel corso di più di quarant’anni di scrittura, ha saputo restare fedele alla sua voce primordiale, pur senza sottrarsi ai processi naturali di maturazione e mutamento. Dopo gli esordi nel 1976, notato da Enzo Siciliano, inizia a pubblicare dal 1981 e da allora ha scritto più di venti libri, tra romanzi, racconti e volumi per ragazzi. In ognuno di essi l’autore è riuscito a tratteggiare atmosfere stranianti, al contempo lucide e inquietanti, dure e commoventi, non tralasciando mai quella dimensione di sacralità dell’umano e della natura più in generale – e dunque della Letteratura – che la maggior parte della produzione letteraria contemporanea è andata via via perdendo, scimmiottando il più delle volte un linguaggio meramente cronachistico e della più ordinaria comunicazione. Quando la fortuna ci concede di incontrare o dialogare con un autore che abbiamo tanto letto e amato, e quando tale incontro ci conferma quanto questo autore somigli veramente al codice che usa, possiamo star certi di non aver perso tempo. Così capita in questa conversazione con Vincenzo Pardini.

Cos’è per te l’ispirazione? Hai un metodo tutto tuo per mettere in ordine appunti dettagli e illuminazioni che poi prenderanno una forma “compiuta”? 

Più che di ispirazione, parlerei di un’idea che insorge, spesso in base a un’intuizione, oppure a un’esperienza. Se l’idea è forte, e insiste, allora mi metto al lavoro. Non prendo nessun appunto. Scrivo quello che mi passa nel momento. Poi avviene qualcosa che non so spiegare e la storia prende corpo. Non sono io che la guido, ma è lei che mi impone e mi comanda. Ed io eseguo. Momenti non belli. Mi calo dentro i personaggi come un attore, e ne decifro psicologia e il resto. Finita la stesura passo alla correzione, buttando via ciò che non serve.

Hai pubblicato il tuo primo scritto nel 1976 e da allora non hai mai smesso di scrivere: da allora come si è modificato il tuo rapporto con la scrittura? 

Nel 1976 ho esordito, scoperto da Enzo Siciliano, su Nuovi Argomenti. Il primo libro uscì nel 1981 presso La Pilotta di Parma con prefazione di Giovanni Raboni. È vero, non ho più smesso di scrivere. Ma non perché lo voglia. Ne farei a meno. Lo faccio quando le storie mi vengono a cercare. Per il resto il mio rapporto con la scrittura è rimasto invariato. Cerco di fare del mio meglio. È comunque un lavoro faticoso e anche avvilente. L’avvilimento mi viene quando i libro è uscito. Non lo sento più mio. E non lo seguo. Trovo altrettanto avvilente presentarlo qua e là. Mi sembra di essere un mendicante, o una prostituta da marciapiede che vuole mettersi in mostra, con tutto il rispetto per queste signore, di cui, come scrittore, mi sento quasi parente. Ormai gli scrittori sono ridotti a questo. Emarginati ovunque. A cominciare dai giornali a cui collaboravo. Tutto perché la nuova politica non ammette voci fuori dal coro, cosa che gli scrittori veri sono. Uno schifo.

La tua è una lunga produzione, ormai quarantennale, in cui ricorrono temi importanti, eterni, avvolti quasi da una patina di sacralità: protagonisti uomini e animali, le loro reciproche bestialità, i loro slanci, le loro pene e intorno un paesaggio sempre selvatico, ancestrale. Ti sei mai chiesto cosa cerchi di dire attraverso le tue storie?

Cerco di salvare l’uomo e la NATURA dalla distruzione, cerco di far sentire la Voce di Dio, l’Unico vero Amico che mi è rimasto. Cosa non facile da spiegare. Ma se hanno creduto il Lui uomini a cui io non son degno di legare le scarpe, perché non dovrei crederci io? Ecco allora che cerco di riportare la gente di fronte al grande mistero della NATURA, soprattutto quella selvatica, la Natura della Creazione. Riscopriamola, dialoghiamoci avanti che sia troppo tardi. La NATURA è un organismo vivente, profanarla con inquinamento, deturpazioni e altro è una bestemmia costante, una provocazione e un insulto a Dio.

«Quando mi rileggo mi distacco, come se leggessi il libro di un altro», hai detto a Marino Magliani, in occasione di una bella intervista. Che cosa vuol dire?

Non bisogna mai montarsi la testa. Bisogna avere l’umiltà di guardare a ciò che abbiamo scritto come ce lo avesse inviato un estraneo. Perché bisogna rendere il testo utile al lettore, a cui va portato il massimo del rispetto. La scrittura la ritengo, infatti, anche un elemento sociale. Deve servire a qualcosa, a qualcuno. Deve aiutare.

Secondo te la letteratura ha ancora la possibilità di agire sulla realtà?

Se è letteratura vera sì. Cioè se l’autore riesce a mettere sulla carta la sua anima. Se invece è un insieme di frasi a effetto, ricelebrata magari anche dagli editing, allora non sortisce nessun risultato. Meglio cestinarla.

Quali sono, secondo te, i doveri ai quali uno scrittore non dovrebbe mai mancare?

Essere sempre e comunque se stesso. Essere, insomma, una sorta di ministro di sentimenti ed emozioni, pur restando a servizio dell’arte.

Hai avuto la fortuna di conoscere e frequentare lo scrittore Mario Tobino, intellettuale acuto, difensore di valori importanti. Come lo ricordi?

Lo ricordo come un coetaneo. Era vecchio ma era rimasto giovane dentro, e non disposto a scendere a compromessi di nessuna sorta. Un uomo.

Che libri stai leggendo in quest’ultimo periodo? Ti interessi alle novità editoriali e come ti orienti viste le numerose proposte sempre crescenti?

Attualmente sto leggendo, su consiglio della cara amica Romana Petri, che reputo una grande scrittrice o scrittora, Il vagabondo delle stelle di London. Poi leggo una biografia di S. Teresa D’Avila, su un vecchio libro uscito nel 1928 e scritto da Louis Bertrand, che mi ha regalato un’altra mia amica: Giuliana Petrucci, mia consigliera letteraria. Ossia, il mio maresciallo aiutante di battaglia. Da giovane, mi interessavo alle dive, alle belle donne. Perché non c’è cosa più bella di un donna. Per questo amo molto mia moglie e mia figlia. Da vecchio, mi interesso alle sante. Sono straordinarie. Penso, oltre a S. Teresa D’Avila, a Santa Gemma Galgani, la più grande mistica del Novecento, e mia conterranea. Al momento non mi interesso ad alcuna novità letteraria. Ma ritengo brave autrici Carmen Pellegrino e Flavia Piccinni, che leggo sempre con piacere, così come leggo con piacere Marino Magliani, Mariano Bargellini e Roberto Pazzi.

In un’intervista ad Angelo Ricci hai dichiarato «Le parole erano strumenti, come il picco e la pala. La ruspa non mi interessava. Ero e sono rimasto artigiano. E ho fatto mia una regola che mi suggerirono Felice Del Beccaro, Cesare Garboli ed Enzo Siciliano: di rimanere scrittore, di non divenire un letterato». Che cosa intendevi?

Intendevo quello che continuo fare. Non essere mai un epigono, ma solo me stesso, a qualsiasi prezzo. Andare controcorrente costa fatica. Ma non sono capace di fare altrimenti.

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