Lidia Lombardi
A proposito de "Le douleur"

Il dolore secondo Duras

Esce il film di Emmanuel Finkiel (con Mélanie Thierry) tratto da Marguerite Duras e dai suoi autobiografici tormenti tra la Resistenza, l'Olocausto e la ricostruzione. Un "drammone" di grande forza e compattezza

«Voglio essere morta da viva». Lo dice a se stessa, in un dialogo interiore che non s’interrompe per due anni, come un flusso della coscienza, Marguerite, la protagonista del film La douleur, nelle sale a ridosso della Giornata della Memoria. I distributori Walmyn e Wanted, alle prime prove sul mercato, confessano che mai avrebbero voluto prendersi sulle spalle un “drammone” come questo, ma che la sua forza e compiutezza gli hanno fatto cambiare idea. Possiamo condividere. Perché è un titolo che soddisfa chi ama il cinema e chi ama la letteratura. Emmanuel Finkiel, il regista (Casting, A decent man) lo ha tratto da due parti del libro di Marguerite Duras, le cui pagine fanno da sottotesto all’intera pellicola. La protagonista, la intensa Mélanie Thierry (La leggenda del pianista sull’oceano di Tornatore, The Zero Theorem di Gilliam e nel 2016 a Cannes con Io danzerò) che tiene sulle spalle tutto il movie, presente quasi in ogni inquadratura e spesso con primissimi piani che le scavano l’animo, racconta in prima persona di se stessa, rileggendo un diario buttato giù tra il 1943 e 1945, «con una scrittura accurata» nella quale a rileggerla anni dopo non si riconosce, come non si riconosce nel valore letterario di quelle pagine, che valore – sostiene – non hanno.

La storia infatti è quella di una giornalista-scrittrice nella Parigi occupata dai nazisti. Lei è tra i clandestini della Resistenza francese e capita che un giorno il marito, Robert Antelme, poeta e resistente come lei, sia arrestato dai tedeschi e deportato a Dachau. È la vicenda autobiografica di Marguerite Duras, affidata all’omonimo romanzo – La douleur, “Il dolore”, edito in Italia da Feltrinelli – che scontò la medesima pena. E il fatto che dietro il film odierno ci sia stata una scrittrice e insieme una regista (indimenticabile il suo Hiroshima mon amour) spiega lo spessore della materia della quale Finkiel si è giovato, sovrapponendogli comunque il proprio vissuto, i ricordi del padre che aspettava i genitori e del fratello deportati ad Auschwitz.

È appunto l’attesa il pentagramma sul quale la pellicola si muove. Gli eventi sensazionali del biennio ’44-45 scorrono in filigrana, non deflagrano mai, visti soggettivamente da Marguerite. Che si lascia vivere, che s’interroga sul rimorso, che si sdoppia. È la Marguerite che – nella prima parte del film – si incontra furtiva con Rabier, massiccio collaborazionista del Governo di Vichy (un impenetrabile Benoit Magimel): per avere notizie del marito, mentre lui è preso dai suoi occhi celesti e dalle labbra pallide, o forse vuole soltanto carpirle informazioni sui covi della Resistenza e sui suoi compagni. Tra i quali c’è pure Dionys, maquisard-amico-amante (un franco Benjamin Biolay), in un groviglio di sentimenti che tutti avvolgono come il fumo delle sigarette accese da lei una dopo l’altra. E che è il protagonista maschile della seconda parte del film, in uno iato forse troppo risoluto rispetto a quanto la cinepresa ha raccontato prima.

Perché le douleur è tormento, tristezza per un’assenza. Attesa, con quella porta bianca dell’appartamento di Marguerite che squilla, ma non porta mai Robert, invece conduce gli amici, in un andirivieni confuso come i tempi, tra la fine dell’occupazione e lo stordimento del ritorno alla libertà. Ed è senso di colpa, la douleur, perché Marguerite ama il marito finché lui non c’è, anzi forse ha già smesso di amarlo mentre va alla stazione per rintracciarlo tra i reduci, in strada si balla dopo la Liberazione e Dionys la sfida dicendole: «A cosa tieni di più, a Robert Antelme o al tuo dolore?». Poi, il colpo di spugna, seguente all’angoscia del ’44. Robert non torna subito, ma mesi dopo, con gli ebrei sopravvissuti e tirati fuori dai lager, che ancora non si sapeva fossero il luogo della soluzione finale. È una larva umana, e mai cancellerà le stigmate inflittegli a Dachau. Ma la Francia tricolore di De Gaulle tace e vuol dimenticare. Anche Marguerite vuole voltare pagina, avere un figlio da Dionys. Lo pensa mentre trascolora la sagoma allampanata del marito nello sfarfallio dei raggi di sole sul mare italiano. La fotografia si fa liquida, come mentre la donna cammina tra le strade di Parigi nei mesi di Vichy. E Duras, spietatamente sincera, scrive: «Robert non morì nei campi di concentramento».

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