Raoul Precht
Periscopio (globale)

Steinbeck il ruvido

Rileggere John Steinbeck, cinquant'anni dopo: l'Occidente è tornato ad essere un mondo inospitale nel quale i conflitti non si ricompongono e dove l'alternativa è sempre tra uomini e topi

C’è una certa ruvida sgradevolezza nell’opera narrativa – e forse anche nella personalità – di John Steinbeck, almeno a dar retta alla prima moglie, che ne disse peste e corna, accusandolo in pratica di aver abbandonato lei e i due figli. Ma le testimonianze delle ex mogli vanno sempre prese con le pinze, e la verità è che Steinbeck ha sempre voluto considerare se stesso un lupo solitario, estendendo questa sua caratteristica anche all’universo dei lettori. “Siamo animali solitari – disse in un’intervista alla Paris Review – e passiamo la nostra vita a cercare di sentirci meno soli. Per far questo la scrittura non è che uno dei mezzi più antichi che abbiamo a disposizione”. E in una lettera del 1961 all’amico John Murphy rincara la dose: “Per nove decimi nella vita di uno scrittore non può esserci compagnia, né amici, né soci. E fino a quando uno non fa pace con la solitudine e non l’accetta come parte del mestiere, come il celibato è parte del sacerdozio, fino ad allora vivrà momenti davvero terribili”.

La scrittura quale mezzo per esprimersi ed entrare in contatto con gli altri, dunque; ma anche, sebbene qui non lo dica, quale strumento privilegiato per scandagliare e ricostruire la realtà. Se analizziamo una a una tutte le sue opere, ci rendiamo conto che Steinbeck si serve dell’espressione letteraria in modo quasi documentaristico, per creare una realtà che al lettore dell’epoca dev’essere parsa più vera del vero. Per ottenere quest’effetto non esita a ricorrere a mezzi diversi, fra cui anche qualche concessione al melodramma – si pensi alla storia di Lennie in Uomini e topi –, ma se ne riscatta in un modo molto semplice, adottando uno stile di scrittura che è quanto di più sobrio e asciutto si possa immaginare. Ecco, nella versione italiana di Cesare Pavese, la scena dell’eliminazione di Lennie, appunto, da parte di George, l’amico che si è fatto in quattro per lui e non può più salvarlo dalla collera degli altri, e decide quindi di dargli almeno una morte dignitosa, perché Lennie possa lasciare questo mondo felice, pensando al roseo futuro che immaginava lo aspettasse anziché all’atto terribile appena compiuto, di cui non può essere ritenuto responsabile: “E George alzò la pistola, la tenne ferma, e ne puntò la bocca proprio sotto la nuca di Lennie. La mano gli tremava orribilmente, ma il viso si distese e la mano si fermò. Premé il grilletto. Lo schianto del colpo echeggiò fra le colline e si spense rimbalzando. Lennie ebbe uno scossone e poi s’abbandonò innanzi adagio sulla sabbia, dove giacque senza un tremito”.

Uomini e topi, del 1937, è un piccolo (per dimensioni) capolavoro, che nella sua concisione programmatica va dritto al cuore (o al fegato) del lettore e che ebbe un successo enorme. Del resto, Steinbeck all’epoca era già un autore noto e seguito, tanto che 117.000 copie del romanzo erano state ordinate dai suoi fedeli lettori prima ancora che uscisse. Nella prefazione all’edizione francese Joseph Kessel scrisse a ragione che è un libro breve, ma dal lungo potere, inteso come capacità di restare impresso nella mente di chi legge e di smuovervi qualcosa. Scritto in modo ruvido, senza concessioni di sorta, il romanzo descrive la vita grama dei lavoratori migranti e itineranti costretti a spostarsi in California dagli Stati agricoli, e in particolare dall’Oklahoma (non a caso venivano tutti, indistintamente, chiamati Okies), all’epoca della Grande depressione. Steinbeck parlava con cognizione di causa: già negli anni dell’università, quando era studente a Stanford (peraltro, non si laureò mai), aveva lavorato saltuariamente in un ranch appartenente allo zuccherificio di Santa Clara, dove gli era capitato di conoscere molti lavoratori come quelli descritti nel romanzo e di viverne da vicino le traversie.

Lo stile, come dicevamo, è scabro, intenso; Steinbeck lascia agire i suoi personaggi, non ne analizza i pensieri o le ragioni più profonde, ottenendo così un’inesorabilità nell’andamento della vicenda che fa pensare alle tragedie greche. I dialoghi sono banali, non di rado contengono ripetizioni, ellissi, e financo delle volgarità: quelle della vita di tutti i giorni. Sta al lettore, in qualche modo, tessere la tela, ricostruire i movimenti dei personaggi e i loro rapporti dal poco che Steinbeck scrive e dal molto che lascia intendere.

Se già in precedenza Steinbeck, nato nel 1902, si era fatto notare, ancora giovane, con almeno altri due romanzi, I pascoli del cielo (1932) e Pian della Tortilla (1935), la consacrazione definitiva gli verrà però con Furore (1939; traduzione italiana non troppo felice di The Grapes of Wrath, letteralmente “i grappoli dell’ira”, una citazione dall’Apocalisse). Come atmosfere e meccanismi narrativi il romanzo si situa pienamente nel solco di Uomini e topi e narra, nei toni di una rigorosa e forte denuncia sociale, la storia dell’esodo di una famiglia di contadini del Midwest, i Joad, in marcia verso la California per sfuggire, come altre tre milioni di persone, tanto alla terribile siccità, quanto alle tempeste di sabbia o Dust Bowl che negli stessi anni, soffiando dalle pianure meridionali verso la East Coast, distruggevano i raccolti e rendevano intere aree praticamente inabitabili. (Chi veda il fenomenale film muto The Wind di Victor Sjöström può farsene facilmente un’idea.) Ridotti alla fame, anche perché le loro case vengono requisite dalle banche, i contadini si riversano sulla famosa highway 66, caricando sulle loro automobili quel poco che possono portare via, per raggiungere una falsa terra promessa, nel loro caso quella California dove saranno sfruttati e stritolati da un meccanismo economico di dumping sociale che ne vanificherà ogni speranza di rinascita e riscossa. Per i grandi proprietari terrieri, messi in difficoltà dalle restrizioni all’immigrazione di contadini e operai messicani, l’arrivo di quei compatrioti poveri rappresenterà una vera manna dal cielo, e nessuno si porrà davvero il problema delle loro condizioni di lavoro e di vita. La maggior parte degli immigrati vivrà in capanne fatiscenti; molti dei 90.000 indigenti che sopravvivranno alla fame saranno falciati da epidemie, per non parlare della diffidenza di coloro che avrebbero dovuto accoglierli e del razzismo che colpisce in particolare le persone di colore, i disabili, le donne – tutte cose che Steinbeck descriverà nei dettagli senza alcun abbellimento, anticipando quella commistione fra indagine giornalistica, denuncia e narrativa che caratterizzerà in seguito Truman Capote e dimostrando al tempo stesso da un lato partecipazione ed empatia nei confronti dei suoi personaggi, e dall’altro una distaccata capacità di analisi economica e sociologica che pochissimi scrittori possono vantare. Non a caso in quegli anni Steinbeck collabora anche con fotografi come Dorothea Lange, che percorrono l’America raccontando con le loro immagini il mutamento della società statunitense. La Lange, in particolare, chiude il suo studio fotografico per associarsi alla FSA, la Farm Security Administration: potrà così seguire l’emigrazione in California, il più delle volte a piedi, di 350.000 agricoltori e documentarne il dramma, pubblicando nel 1939, insieme al secondo marito Paul Schuster Taylor, An American Exodus, la raccolta d’immagini forse più significativa sull’argomento.

Ma torniamo all’attività letteraria di Steinbeck, che in seguito inanellerà altri successi, come ad esempio Vicolo Cannery (1945) e La valle dell’Eden (1952), e la cui popolarità sarà amplificata da fortunate riduzioni cinematografiche. In generale, va detto che il cinema è stato molto generoso con lui e con il pubblico, regalandoci versioni più che accettabili, e a volte belle, dei suoi romanzi, affidate a grandi registi come Lewis Milestone, John Ford, Victor Fleming, Alfred Hitchcock, Elia Kazan, mentre fra gli interpreti vanno ricordati almeno Henry Fonda, James Dean, Anthony Quinn e più recentemente Gary Sinise, John Malkovich e James Franco.

Sembra che nel 1962, quando gli fu conferito il Nobel per la letteratura, Steinbeck non fosse tuttavia il favorito e che l’abbia ottenuto più che altro per una serie di coincidenze e veti incrociati che impedirono ai giurati di premiare qualcun altro: fra i papabili di quell’anno, Karen Blixen si autoescluse morendo troppo presto, nel mese di settembre (e il regolamento del premio non consente di conferirlo a un autore deceduto); Robert Graves era considerato più un poeta che un romanziere, e premiare un poeta angloamericano avrebbe suscitato polemiche e arrecato offesa agli estimatori di Ezra Pound, fuori gioco per ragioni politiche; sul valore del Quartetto d’Alessandria di Lawrence Durrell, il terzo candidato, non c’era unanimità fra i giudici; e quanto all’ultimo candidato di quell’anno, Jean Anouilh, c’era la difficoltà di premiare dopo appena due anni un altro francese, visto che Saint-John Perse aveva ottenuto il Nobel nel 1960. A quanto pare, insomma, Steinbeck la spuntò come outsider grazie all’eliminazione, per ragioni diverse, dei suoi avversari più temibili, e non certo perché gli accademici di Svezia lo volessero a tutti i costi. In effetti, benché avesse continuato a pubblicare romanzi a ritmo sostenuto – L’inverno del nostro scontento è dell’anno precedente, il 1961 – Steinbeck non era più riuscito in tempi recenti a ottenere successi chiari e incontrovertibili come con i romanzi dei decenni precedenti.

Tra gli ultimi libri, prima della morte che lo coglierà esattamente cinquant’anni fa, il 20 dicembre 1968, il più particolare e sofferto è forse Viaggio con Charley, reportage di un viaggio in camping car attraverso l’America che uscirà nell’anno del Nobel e con cui cercherà di ritrovare una sintonia con il proprio paese che crede ormai perduta. A bordo di un furgone ribattezzato Ronzinante, e con il barboncino Charley quale unica compagnia, Steinbeck si sottopone a un periplo massacrante, che lo porta in pochi mesi ad attraversare parte del Canada, il New England, le pianure del Midwest e le Montagne Rocciose fino a raggiungere il Pacifico e risalire verso la meta finale (e punto di partenza) New York, passando ancora per il Texas e la Louisiana. Scopo di questo viaggio, condotto per la maggior parte su strade secondarie e per vie traverse, è incontrare la gente comune, sondarne i gusti, le aspirazioni, i dolori e le gioie, senza dimenticare di abbordare nelle sue conversazioni con la gente temi di grande attualità in quegli anni come la guerra nel Vietnam – contrariamente alla maggioranza degli intellettuali, Steinbeck si dichiarò a favore dell’intervento americano -, la segregazione razziale e la corsa verso l’atomica. Malgrado le precarie condizioni di salute, Steinbeck si sottopone a questo tour de force nel tentativo, ancora una volta, di comprendere e far propria la realtà in tutte le sue sfaccettature, di orientarsi nel mondo. Con una sorpresa finale, che a posteriori acquista un notevole valore simbolico: una volta rientrato nella Grande Mela, si scopre incapace di ritrovare la strada di casa e dovrà chiedere indicazioni al primo poliziotto che incontra. Perché è forse proprio ciò che più ci è familiare a rivelarsi, alla fin fine, straniante…

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