Sergio Buttiglieri
Al Centro Dialma Ruggiero di La Spezia

Manfredini o Bacon?

Torna in scena, dieci anni dopo, “Al presente” di Danio Manfredini: un doloroso monologo che mescola le memorie personali a quelle dei pazienti di un ospedale psichiatrico

Il Centro Dialma Ruggiero di La Spezia ha inaugurato la sua Stagione teatrale con lo spettacolo Al presente di Danio Manfredini: uno struggente, doloroso monologo che nel 1999 vinse il premio Ubu. L’autore/attore entra in una scena algida – che tanto ricorda gli ospedali psichiatrici dove lui per anni ha lavorato – vestito di bianco con un viso che racconta sofferenze, con gli occhi “insanguinati”. Incede su questo territorio ostile, respingente, raccontandoci della sua infanzia, del rapporto con il nonno e della sua peregrinazione con la famiglia verso le periferie milanesi. Seduto su una panca, un suo doppio, un manichino vestito come lui, con uno sguardo perso come il suo. In uno stato di assenza, di impossibilità ad agire per modificare il proprio destino.

Il monologo di Danio Manfredini è, come da sempre siamo abituati a sentirlo nei suoi magnetici spettacoli, denso di citazioni legate al mondo dell’arte e della letteratura. Un monologo interiore attraversato dai ricordi autobiografici dei suoi pazienti devastati e abbandonati dalla società. Emblematico, per esempio, il racconto del pescatore che con fatica porta a riva un grosso pesce: «Vuoi sapere chi è il pescatore per il pesce? È la sua coscienza. L’anima si attacca alla sua coscienza come il pesce al suo pescatore, così trova la speranza per una nuova vita». Una metafora illuminante sulle vite non risolte di questa umanità ai margini, in perenne ricerca di ritrovare se stessa.

Non è necessario comprendere tutto dei lacerti di ricordi che Manfredini ci riversa a tratti danzando forsennatamente, con la sua parrucca bianca, memore dei personaggi del Woyzeck di Büchner, a tratti sedendo contrapposto al suo manichino su quella doppia portantina claustrofobica. Il messaggio di sofferenze sepolte e dimenticate da tutti ci arriva profondamente e ci scuote, mentre a tratti, sullo sfondo, appaiono schizzi acquerellati di istanti di desolata solitudine con il sottofondo di una ballata di Vasco Rossi. Le pose irrigidite del suo corpo e il suo viso deformato dal terrore, non a caso tanto ci ricordano i tormentati corpi di Bacon. Come quello del celeberrimo ritratto di Innocenzo X seduto su un trono, che a noi sembra materializzarsi in quella sorta di sedia elettrica su cui far detonare il ricordo dei dolori suoi e delle tante anime derelitte che riaffiorano in maniera entropica nella sua mente.

Tutto ciò grazie anche a inserti dallo Straniero di Camus e dai testi dello scultore Alberto Giacometti che Manfredini ci recita trafiggendo i nostri cuori assopiti. Un teatro, il suo, che sa mescolare inaspettatamente, come nell’action painting di Pollock, frasi apparentemente sconnesse e squassate dei personaggi che lui ha assistito per 12 anni. E che tanto ci ricordano altri suoi celebri spettacoli come Cinema Cielo dal retrogusto kantoriano, oppure Tre studi per una Crocifissione (1992) che rimane indelebile nella memoria per devastante dolorosa bellezza densa di retrogusti pittorici, cinematografici, quasi un omaggio a Fassbinder, oltre che letterari, riprendendo il monologo di Bernard Marie-Koltès La notte poco prima della Foresta. La grande presenza scenica di Manfredini, che in teatro sembra una scultura vivente di Giacometti, riesce a farci entrare nei suoi personaggi come se fossero nostri i loro caotici pensieri, come se fossimo noi stessi a raccontare al pubblico i propri dolori, le nostre vite irrisolte. La madre che più volte viene evocata in scena è al contempo la sua, quella di un suo paziente e in qualche modo la nostra.

Un grande inizio di Stagione quella di questo vitalissimo centro teatrale spezzino che quest’anno ci propone testi fuori dalla medietà delle stagioni soporifere classiche di provincia per valorizzare il meglio del nostro teatro di ricerca.

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