Francesco Improta
Su “Gli amori infelici non finiscono mai”

La vita è un autobus

Isabella Borghese racconta storie di ordinario disagio a Roma, dove le esistenze si consumano nel continuo gioco di conoscersi o ignorarsi. E dove tutto succede su un autobus che diventa il palcoscenico della vita

Se è vero che qualità precipue di uno scrittore degno di questo nome sono la capacità di osservazione, la cura del dettaglio e l’attenzione alle dinamiche psicologiche, oltre naturalmente alla chiarezza, alla fluidità e all’originalità dello stile, credo che a buon diritto Isabella Borghese possa essere annoverata tra i narratori di razza. Ne Gli amori infelici non finiscono mai (Giulio Perrone ed. Euro 14), titolo alquanto ambiguo ma decisamente accattivante, la Borghese non racconta solo una storia d’amore complessa e tormentata ma anche e soprattutto l’inadeguatezza e il disagio, esistenziale e sociale, di chi vive oggi in una città caotica e problematica come Roma.

Le voci narranti, e quindi i punti di vista, sono due: Eszter, precaria dell’editoria di giorno e cameriera di notte, che sembra uscire dalle pagine di Sandor Marai, di cui la madre era un’accanita lettrice e l’Uomo senza volto che, a seguito di un terribile incidente, finisce in coma per diverso tempo per uscirne poi miracolosamente ma affetto da prosopagnosia, una disfunzione neurologica che comporta l’incapacità di riconoscere i volti, compreso il proprio. A questo punto la vita per lui cambia radicalmente: si separa dalla moglie, abbandona il suo vecchio lavoro e l’hobby per la cucina e per sopravvivere è costretto a dare lezioni private ad alcuni studenti. Cambia il modo di affrontare il quotidiano, e riduce al minimo indispensabile le sue uscite, dal momento che anche le mansioni più semplici ed elementari, come fare la spesa al supermercato o acquistare il giornale, gli risultano ostiche, senza contare l’amarezza di imbattersi in un amico e non riconoscerlo. L’unica attività, o meglio atto d’amore, al quale non può e non vuole rinunciare è promuovere il romanzo della donna di cui era innamorato e di cui non riconosce più neanche il volto: Gisella Montar; per cui ogni giorno si reca dinanzi alla libreria Alice nel paese delle meraviglie per rivendere, dopo averle acquistate e adeguatamente pubblicizzate, le copie di Ha un cuore libero o una moglie, l’esordio letterario di Gisella.

Eszter, invece, tutti i giorni prima di andare al ristorante dove lavora come cameriera, dopo attese snervanti alla fermata dell’autobus, sale sul 60, che attraversa Roma da Largo Pugliese a Piazza Venezia, per scendere non lontano dalla Libreria Alice nel paese delle meraviglie e per spiare da lontano l’Uomo senza volto, suscitando la sua ira quando, a causa di un’essenza al muschio bianco, quest’ultimo crede di riconoscere in lei un’infermiera dell’ospedale in cui era stato lungodegente e dalla quale era stato a stento tollerato e talvolta addirittura maltrattato.

L’autobus è una sorta di caravanserraglio, un luogo di confusione e di disordine, dove si raccoglie una folla composita ed eterogenea di persone che si lamentano, protestano, blaterano o si chiudono in se stesse ma che sono accomunate tutte da un senso ineluttabile di precarietà, ingigantito dalle pessime condizioni della viabilità romana e dei mezzi utilizzati, ai limiti della rottamazione a detta degli stessi dipendenti dell’ATAC. Non è un caso che in uno di questi viaggi che hanno il sapore dell’avventura pioneristica o dell’epica odissea, il guidatore che si è lasciato andare a lamentele e rivendicazioni salariali della sua categoria, fermi l’autobus e inviti tutti i passeggeri a partecipare alla manifestazione di protesta organizzata dagli auto­trasportatori. In una situazione così caotica si sa, e non sempre per i ritardi ormai cronici, quando si parte ma non si sa quando e se si arriva. Ed è qui che si manifesta la qualità principe della Borghese, la capacità di osservazione che la porta a cogliere in un gesto, in uno sguardo o in un vaniloquio, come quello dell’Uomo del Suicidio Premeditato, dolente e ripetitivo ai limiti della sopportazione, non solo un carattere, una connotazione specifica, ma anche un tessuto di sofferenza e di rassegnazione. E tutto questo in una condizione di estremo disagio fisico e psicologico per la mancanza di spazio e di aria, per cui si finisce schiacciati l’uno contro l’altro o con un arto – nella maggior parte dei casi una caviglia – stretto tra le porte a soffietto.

L’autobus diventa una specie di mise en abîme, un modellino in scala ridotta della vita raccontata nel romanzo e non solo, un piccolo teatrino dove ognuno in apparenza recita a soggetto ma in realtà secondo un copione già scritto da altri, sistema, istituzioni o destino che sia, ed è qui che la penna della Borghese si fa più tagliente, più ironica, più sarcastica.

Non mancano, neppure, nel corso del romanzo frecciatine polemiche nei confronti dell’invadenza sempre più insopportabile dei call-centre, capaci di minare anche la pazienza e la disponibilità di un santo e della nouvelle cuisine definita giustamente come la cucina che svuota il portafogli ma non riempie lo stomaco; di contro si esalta la cucina tipica regionale, dai sapori genuini e rassicuranti.

Peccato che questo tono non rimanga omogeneo per tutto il romanzo e che si illanguidisca quando si parla di amore o di sentimenti, fino a diventare, talvolta, lezioso. L’amore tra i due protagonisti, impreziosito da qualche buona lettura e da piatti altrettanto sapidi, è, a seconda dei casi, consolazione, disperazione, gioco o nostalgia, e mai un progetto di vita anche perché i progetti vengono sempre scompigliati da un destino bizzarro e incontrollabile.

Buono il colpo di scena conclusivo, preparato con grande perizia narrativa, mentre il finale, che certo non rivelerò per non privare il lettore del piacere della scoperta, risulta, a mio avviso, troppo ad effetto.

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