Manuela D’Aguanno
Parole e ombre/18

Che ti guardi

"Che ti guardi? Sembra chiedermi con quell’aria da adulto. E chi guarda? Io non guardo proprio niente. Vorrei rispondergli io. Io che da adulto in quel momento ho solo l’età, mentre guardo (eccome!) il culo di sua madre (sua madre?)"

Fotografia di Enrico Graziani

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Che ti guardi? Sembra dire lui mentre fa un altro tiro. Che ti fumi? Vorrei dirgli io.
Io che ho smesso da poco. Che fumavo cinquanta sigarette al giorno. Che ho detto basta alla schiavitù del tabacco.
Che ti fumi? Vorrei dirgli io. Io che mi arrampicherei con le unghie per rubargli anche solo un tiro. Che metterei la mano in tasca per tirare fuori 50 euro solo per avere il suo mozzicone. Da sturare.
Che ti guardi? Sembra chiedermi con quell’aria da adulto. E chi guarda? Io non guardo proprio niente. Vorrei rispondergli io. Io che da adulto in quel momento ho solo l’età, mentre guardo (eccome!) il culo di sua madre (sua madre?). Chiappe rotonde e sode, con un filo di cotone bianco in mezzo. Chiappe popolari. Che sanno di carne. Che se le stringi con le mani emergono in mezzo alle dita come fosse l’impasto del pane.
Io non guardo proprio niente. E’ lei che è uscita sul balcone mezza nuda. (Sua madre? E’ troppo per me chiedermi se non lo è). E sei mezzo nudo pure tu. Anzi, forse tutto nudo. Ragazzino. Perché sei piccolo e non esisti dalla cintola in giù. Ti si vedono le costole, ragazzino. Solo quelle. E la faccia da adulto. I capelli corti appena spettinati e la faccia da adulto. E le costole.
Ma quanto dura ‘sta sigaretta? Buttala, buttala ragazzino! Vorrei gridare io. E mi vedo strisciare lungo il bordo del marciapiede sporco per farmi una tirata. L’ultima. L’ultima della cicca. Come un drogato. E come un drogato prenderei a morsi il culo di sua madre. Come fosse lei l’ultimo tiro.

Cavallo rosso a dondolo la sua coda. Blu alla radice. Culo e capelli. Solo questo vedo di lei che invece si vede quasi tutta sul balcone. Ma io vedo solo coda rossa di cavallo a dondolo e chiappe rotonde.
Che ti guardi? E’ vero guardo. Guardo come un guardone. Inorridito. Ammaliato.
Sono troppo per me pure questi panni stesi. Disordinati. Violentati dal vento. Lenzuola bianche con fiori sbiaditi che sanno di quel culo. Hanno il sapore di quel culo.
E’ troppo anche il legno consumato della finestra. Il vetro rotto. L’inferriata arrugginita.
Che ti guardi? Che ti fumi? Vorrei dirgli. Che ti fumi ragazzino? Ragazzino con la faccia da adulto.
Ma ho paura. Inorridito. Ammaliato. E’ tutto troppo per me. Tutto troppo lercio e affascinante.
E’ l’attrazione verso il basso che non è forza di gravità.
Che ti guardi? Vorrei dirgli. Butta dal balcone il mozzicone che ancora fuma, il ragazzino. E guarda sopra la mia testa. Molto più sopra. Più lontano. Sopra i tetti. Dove non arrivo. Dove non posso arrivare. Dove non potrei arrivare neppure se stessi lì con loro.
Butta il mozzicone rosso di brace e si dimentica di me che non corro a prenderlo sul bordo del marciapiede sporco. Si dimentica di me che non mordo le chiappe di sua madre (sua madre?) che intanto è rientrata. Di spalle è rientrata. Coda di cavallo rosso a dondolo e chiappe.
Che ti guardi? Vorrei dirgli. Ma non posso. Non mi guarda più. Guarda sopra la mia testa. Lontano. Troppo lontano per me. Guarda oltre. Dove non posso arrivare.
E il balcone adesso è vuoto.

Manuela D’Aguanno è nata a Roma e si è laureata in Lettere e Storia dell’Arte all’Università degli Studi “Roma Tre”. Specializzata nel campo del mercato dell’arte e dell’antiquariato, lavora attualmente presso una casa d’aste del centro di Roma. Scrive per “Mag O”, il magazine di Omero, e in ambito narrativo ha pubblicato nel 2015 la raccolta di racconti È tutto il resto che fa impressione e nel 2015 il romanzo Lei è lì editi entrambi da Alter Ego Edizioni.

Enrico Graziani. Venuto al mondo nelle sconfinate steppe della Puglia settentrionale, colà cresciuto e pasciuto, si è poi, poco più che imberbe, trasferito nella Città Eterna, per motivi prima di studio, poi di lavoro, poi di lavoro e di hobby. Gli stessi motivi, prima di studio, poi di lavoro (la fisica delle particelle elementari), e, perché no?, di hobby, lo hanno portato ad eleggere la città di Ginevra e ora il Giappone quali suoi domicili alternativi (e quindi quali secondi palcoscenici fotografici). Passa il suo tempo (scarsamente) remunerato a cercare cose troppo piccole, astruse, deboli e sfuggenti perché possano essere raccontate a parole (e men che meno fotografate). Passa il suo tempo che nessuno si sognerebbe di remunerare cercando associazioni, fotografiche e fotografabili, tra parole ed immagini. Ambisce ad inserire questo filone nella lista pressoché sconfinata dei suoi deboli. Per esempio, fotografando ossimori. Oppure immortalando didascalie. Oppure dedicandosi a ciò che immortale dovrebbe essere per definizione, anche se nutre qualche dubbio in proposito e spesso si sofferma sull’immorale e se lo fa bastare.

 

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