Daniela Matronola
Storie di ordinario dolore

Liquor

«Aspetta lo stesso morso tagliente. Si aspettava che tutto si risolvesse in una sensazione felpata, tattile, e invece l’ingresso dell’ago tra L4 e L5 risulta fin dall’appoggio vivo da impazzire»

Nello studio la musica non rimbalza, solo perché è intrappolata nelle cuffie. Anche ora che se le è tolte e gli stanno in grembo mollate dalle mani tremanti fuoriesce un suono flebile, niente a che vedere col picco di volume in cui si avvolge ogni giorno, di sera e all’alba. In cui era avvolto fino a un minuto fa. Calza le cuffie anche quando suona, per non stremare la famiglia i vicini la strada il quartiere – benché sia piuttosto bravo. In qualche altro momento febbrile, in passato, ha sognato di trasformare l’appartamento in cui si isola per lavorare e studiare in una vera e propria sala di registrazione, accarezzando l’idea di foderare le stanze di pannelli di schiuma per insonorizzarle.

Un’ipotesi estrema che ora gli pesa sulla mente: ha addosso una stanchezza mortale completamente senza ragione. Punta il cellulare posato di fronte sulla tastiera del portatile: sono le 19:19, gli dice il pc, di domenica 9 settembre, e lui è incollato con la schiena alla poltrona. Raggiungere il cellulare sembra vitale.

Fa una specie di salto per agguantarlo e ricade contro la poltrona: un movimento irrisorio che gli fa scoppiare un dolore diffuso lungo la spina dorsale fino alla radice dei capelli.

“Seduto in quel caffè, io non pensavo a te”, canticchia mentre cerca la lista delle chiamate recenti e non ricorda chi deve chiamare, o meglio chi chiamare prima – trovata.

“Scusa, ci vieni un attimo di qua?”, si accorge di dirlo con voce strozzata.

Sandra neppure risponde, in mezzo secondo arriva.

“Cos’hai? Che ti succede?”, è piuttosto agitata, fatto che lo indispone subito.

“Manteniamo la calma, via”, e si chiede se qualcosa nel suo aspetto sia divenuto orribile, al punto da far gridare sua moglie in preda a un panico crescente.

“Che ti senti?”, è proprio disperata. Ma non è lui che può rincuorarla.

“Chiamo un’ambulanza…”

“Ma no! Ma che ambulanza!”: gli costa fatica dirlo. “Chiamo Sergio”,

fa, e dà un colpetto allo schermo del cellulare. Un attimo dopo:

“Sergio, senti, non sarà niente, però se passi un attimo mi fai un favore”.

“Dove hai dolore? Hai una voce…” – “Non ho dolori, sono solo esausto…”.

Ha in parte mentito.

 

Anche se è domenica e quasi ora di cena, e la gente affolla ancora le strade; anche se il traffico sui lungotevere è fermo forse più che nei giorni feriali; anche se Sergio proviene dai Parioli e avrà dovuto piantare in asso Nicoletta sulla “loro” terrazza cercando di non allertarne l’attaccamento ormai sopito; anche se è sempre un’impresa superare le muraglie che si frappongono tra loro; Sergio è arrivato in via Giulia in dieci minuti netti, ma a Mauro è sembrato che abbia bussato un attimo dopo aver chiuso la telefonata.

* * *

“Allora, che ti senti?”- Sergio ha un tono accorato e non ha con sé la borsa.

“Cazzo, Sergio, sei un medico, mi sembri il ritratto dello spavento…”

“E dammi tempo! Dimmi che sintomi hai.”.

“Niente di definito. Ho una fiacca terribile. Mi sento a terra.”

“Hai dolore da qualche parte? Che ne so?, al braccio o al petto…”

“Niente del genere. Non è infarto. Neanche ischemia. E neppure ictus. Esclusi.”

“Lasciale stabilire a me, queste cose”, e con le dita gli tasta il collo inseguendo le carotidi, possibili linfonodi, la tiroide.

“Sei piuttosto pallido. È cambiato qualcosa da quando mi hai chiamato?”

“Direi di no. Anche se adesso che sei qui, mi pare di star meglio.”

“Allora, che vuoi fare? Vuoi restare a casa o facciamo un salto?”

“Tu che faresti?”

“Lo sai benissimo, è quello che vuoi fare anche tu, ma vuoi sentirtelo dire, no?”

“Dimmelo allora”

“Andiamo. Va bene? Sandra, è meglio fare un salto in ospedale, vieni?”

“Ma dobbiamo andare in pronto soccorso?”, si allarma lei definitivamente.

“Direi che non è necessario. Telefono e andiamo dritti dentro, tanto…”.

“Oddio che vuoi dire?”

“Sandra, visto che ci lavoriamo, andiamo dritti a Medicina. Partiamo da lì.”

Staccarsi dalla poltrona e immaginare di alzarsi e compiere passi per dirigersi verso la porta, poi scendere in cortile e mettersi in macchina e lasciarsi portare all’Isola Tiberina dove la mattina molto presto arriva in genere a passo spedito oppure pedalando, tutto questo ora non gli entra in testa. Mauro sta scrutando l’espressione di Sergio: da medico, enigmatica – dovrebbe esserne contento, e invece gli dà pensiero.

* * *

In questo momento vorrebbe stare in studio e mettere mano ai libri. Vorrebbe recuperarne uno, sottile, che in gioventù lo ha attraversato come una lama di coltello e rileggere le esclamazioni del valente magistrato, non di spavento ma di stupore: “Intestino cieco! Rene mobile!”.

Si sente anche lui in corsa verso un traguardo inevitabile.

Si sente come quel cacciatore di squali che scivola verso fauci spalancate.

Aspetta lo stesso morso tagliente. Si aspettava che tutto si risolvesse in una sensazione felpata, tattile, e invece l’ingresso dell’ago tra L4 e L5 risulta fin dall’appoggio vivo da impazzire. La spinta successiva è un risucchio che equivale a un numero impensabile di volts. La cosa che gli fa più rabbia è che il dolore è partito forte e sorprendentemente via via è aumentato fino a farsi un muro sordo, riducendolo a un mutismo involontario. Semplicemente non ha voce. E ha una sete insaziabile. Il collega (pazzo, deficiente, o solo stronzo?),

“Abbiamo quasi finito”, gli dice – poi ha un inaspettato scrupolo e gli chiede,

“Come va?”. Ma allora questo qui sfotte pure, si dice, vinto dallo sconforto – dall’idea secca di essere solo un corpo, meno: uno spazio tra due vertebre, uno spiraglio interstiziale da cui per caduta spontanea il collega ha raccolto il suo liquor. Lui ha chiuso gli occhi come se questo avesse il potere di annullare l’assurdo. Anche il moto inverso, l’ago sfilato premendo il cotone imbevuto a chiudere il punto, prima della liberazione dalla pressione, è come l’estrazione di una lama, o lo svitamento di un chiodo. Paradossalmente preferirebbe che l’ago a questo punto glielo lasciassero piantato dentro. Gli pare di stare alla berlina come un eroe trafitto. “Ma aspettate che riprenda le forze e recuperi la voce, e vedrete”, si dice, e lo promette agli ignari destinatari cui non ha la forza neppure di rivolgere occhi furenti.

* * *

Gli stessi occhi con cui adesso guarda il collega perforatore che gli dà tutto allegro solo notizie positive – cioè, un po’ buone e un po’ minacciose.

“Liquor perfetto. Limpidissimo. Un color acqua di roccia da manuale.”

Mauro sente di nuovo martellargli in testa, Intestino cieco! Rene mobile!

“Poi ti volevo anche dire che abbiamo già escluso l’encefalite per prima, e la neurofibromatosi tipo 2 anche, visto che non hai scosse elettriche e non hai perso il controllo degli sfinteri.”

“L’ho sempre detto io.”

“Cosa?”

“Che sei un uomo garbato.”

“Tu invece sei sempre stato duro, efficiente ma duro: adesso, tipo.”

“Ma che fai, parli come i nostri figli? Cazzo, sei un medico.”

Sei un vecchio!, non glielo ha voluto dire ma… ce sta tutto, cioè – ridacchia.

“Infatti adesso mi rimetto il camice e ti comunico che i nostri prossimi esami sono una elettromiografia e una risonanza total body.”

“Io mi limiterei al tratto spinale, non sprechiamo soldi.”

“Mi dispiace, il medico sono io e sono io che decido. Porta pazienza, paziente!”

“Anche fine umorista.”

* * *

Ma che vuole da questo brav’uomo che in fondo lo tortura al solo scopo di potergli comunicare diagnosi fauste? È un ottimo neurochirurgo, è gentile, lo ha preso a cuore, non disdegna di occuparsi di lui. Può almeno starlo a sentire, via, e dargli corda quando ingenuamente cerca di spezzare la sua irritazione.

In effetti un elemento del suo profilo di insolito sofferente è questo nervosismo pronto a inalberarsi alla minima occasione. Dov’è finita la sua calma serafica?, l’imperturbabilità orientale con cui sorveglia i parametri vitali durante i grossi interventi restando in piedi per ore senza il minimo cedimento?, o che gli tiene ferma la mano con cui esegue i blocchi regionali salvo approfondire quando si accorge che l’impressione tattile dell’intervento accresce lo stress nel paziente invece di ridurgliene l’impatto e il post operatorio?

È elettrico, e non se ne era accorto.

Dovrebbe fare training autogeno, attivare la meditazione per sopire l’agitazione – invece ha bisogno di scaricare a terra l’energia strozzata dal malessere.

* * *

“Parliamo di cose serie, vuoi? Non te l’ho mostrato, forse, come si esegue quella banale manovra senza distruggere il sistema nervoso del paziente? Non ti ho detto mille volte che ad ogni ingresso più interno dell’ago devi anteporre un analgesico via via più profondo e ridurre al minimo la sensazione dolorosa dell’esame? Ve l’ho persino recitata la metodica corretta di esecuzione, ho fatto il pagliaccio invano! Non ti ricordi i sorrisi di sollievo dei pazienti, impensieriti solo dalla sensazione di pressione, e come, dopo la solita oretta di riposo, erano leggiadri come farfalle? Io sono sfranto di mal di testa, mi fa male tutto, pure i capelli! Ti sei dimenticato tutto giusto con me? Di’ la verità, hai consumato una vendetta, eh?”

“Scusa Mauro se la tua sintomatologia è ancora indefinita, e io non ho potuto fare lo splendido, eh – però di sicuro nel dubbio t’ho tenuto addosso la pelle.”

“È definitivamente acclarato allora: sei un eroe. Il padrone incontrastato delle nostre vite. Intanto mi scoppia la testa, e mi duole ogni lembo del corpo.”

* * *

Ancora se lo ricorda il tunnel di dolore in cui sostò per più di un mese l’estate dell’81 subito dopo essere diventato una poltiglia di carne e sangue incollata tra il cotto e la parete bianca su cui presero a imprimersi sagome geografiche. In pochi istanti una furia lo aveva demolito, e aveva pure cercato di cancellargli la faccia. Sono i ricami che fanno del suo viso un placido volto d’angelo scolpito come la maschera di un super eroe: un Doctor Strange senza cappa ma col camice, anzi in genere con addosso il solo pigiamino visto che si muove tra blocco operatorio, unità di rianimazione e terapia intensiva – tutte sezioni ospedaliere dove l’estate del 1981 poté giacere mentre mani abili riparavano le numerose fratture di costole e vertebre, una milza palpabile miracolosamente rientrata, l’incrinatura del bacino in tre punti che con l’immobilità paziente si ricompose, e poi contusioni ematomi ecchimosi spacchi tagli. Tutto ottenuto in pochi istanti.

* * *

Erano anni in cui l’uso degli analgesici era molto avaro. L’idea che alla malattia si abbinasse inevitabilmente il dolore, e che il paziente dovesse mettere in conto di soffrire, era l’ultimo residuo di una prassi clinica arcaica. Mauro era nella incresciosa situazione d’essere ferito e giacente, e ormai praticamente un medico: a maggio aveva dato, in pre-appello, caso quasi unico, Patologia Medica, preparato sui volumi del Teodori (4000 pagine), e già dalla fine del terzo anno andava in corsia. Tutto questo non fece che accrescere la sua ribellione al fatto invincibile che gli toccasse patire come un cane perché a nessuno venne mai in mente di fargli degli oppiacei, di somministragli della morfina, di mescolare gli antibiotici con lidocaina invece che col solvente in dotazione (brutti bastardi!), e nessuno si inventò un classico di oggi, la pompa antalgica: caricata a cocktail di antidolorifici, ciascuno potente e tutti insieme imbattibili, pilotata direttamente dal paziente nel dolore acuto senza altri buchi o intoppi nelle vene sfruttate dalle flebo. In realtà qualcuno l’elastomero se l’era inventato, ma in Italia nessuno ne faceva un sacrosanto uso pop.

* * *

Figuriamoci, negare questo proprio a lui, musicista interiore con vocazione da sindacalista. Fu allora che, ruminando muto mentre il suo aguzzino col senso di colpa non schiodava dal suo capezzale se non alle otto di sera, e gridando quasi senza soluzione di continuità dalle otto di sera alle otto della mattina dopo, quando l’aguzzino pentito tornava a montargli la guardia, decise di specializzarsi in anestesia rianimazione e terapia intensiva, così avrebbe assicurato il massimo comfort ai pazienti chirurgici e allettati gravi, e avrebbe anche studiato metodiche e combinazioni farmacologiche per sconfiggere il dolore di qualunque livello nelle patologie croniche e terminali, e nel post operatorio. Il dolore è un impedimento alla guarigione, sicuramente la rallenta, rende infinitamente penoso il decorso della malattia, provoca degli shock che si oppongono addirittura al risanamento. Nelle ricerche sul campo condotte con Sergio, compagno di studi, collega in ospedale, e prima di tutto amico, aveva ipotizzato, e si era ostinato a cercare di dimostrare, che il dolore rimane. Non solo imprime la memoria nella coscienza e nei suoi infiniti strati, ma si marchia a lettere di fuoco nelle cellule, nella chimica del corpo. Si dice per esempio alle partorienti che poi tutto quel dolore sarà dimenticato ma lui è convinto che è meglio non provarlo proprio, per non rischiare che si annidi come un dato registrato, sempre a rischio di tornare in superficie. Infatti è un mago dell’epidurale, e ha fatto nascere così anche tutti e tre i suoi figli.

* * *

Il dolore, una volta provato, diventa un patrimonio della memoria. Il rovinoso incidente estivo lo aveva sprofondato in un inferno di dolore, e questo lo aveva sconcertato come un’ingiustizia. Tre anni dopo, prima dell’estate era incappato in un servizio al telegiornale in cui un giovane, malato terminale, si era fatto frate e aveva deciso di dedicare le sue inaudite sofferenze al Signore rifiutando qualunque terapia del dolore, che era evidentemente severo, dal momento che, incalzato dal microfono del reporter durante la golosa intervista, il ragazzo non aveva quasi fiato e rivolgeva il suo assurdo fioretto con voce strozzata e brevi lamenti intermittenti. Una scena che gli fece orrore. Quei pochi minuti gli si piantarono nella coscienza, ma ancora di più gli lavorava nella mente l’idea che una simile sofferenza era lo stato in cui quel ragazzo versava 24 ore su 24. Ma era la condizione che aveva scelto: allora era libero. Non poteva crederci.

Era l’84, si stava laureando, a ottobre avrebbe intrapreso la specializzazione. Era definitivamente deciso a studiare il dolore e tutti i modi di rimuoverlo. Il dolore è un delitto contro l’umanità. È un crimine non alleviarlo o eliminarlo. Per la cronaca l’aguzzino pentito e divorato dal senso di colpa era suo padre, il noto archistar, ma non è questo il luogo dove spiattellare tutta la storia.

* * *

Al risveglio da un torpore malato, è balsamico sentire una mano attorno alla propria, e portarsela al viso scoprendo che la sua carezza fresca produce una specie di pranoterapia folgorante. Sandra ha la stessa espressione luminosa che, a forza di visite e passeggiate, lo avvolse, e sulla molto lunga distanza lo espugnò, tra il primo aprile e l’estate del massacro. Anche oggi vede la sua severità, la sua aria seria e dolce, tutta distribuita nella sua persona snella e slanciata, sinuosa come una pantera, e nel viso ritrova la stessa distesa serenità che fa tutta capo al naso appuntito, al mantello di lentiggini sparse attorno, agli occhi verdi ben tagliati e incorniciati da ciglia e sopracciglia nere. La bocca ora sta formulando parole che Mauro non riesce a sentire. È solo attratto dal movimento delle labbra e della lingua tra i denti, come nel labiale che segue quando vede le serie o i film doppiati e indovina le esatte parole senza lasciarsi abbindolare dai dialoghi italiani. È uno strano effetto, però la parola-chiave sembra essere stavolta –scatenante. Sandra gli sta riferendo qualcosa o sta ragionando autonomamente su ciò che gli è accaduto? Ci rifletterà in seguito.

* * *

Alla fine non è stato accontentato: risonanza non del solo tratto spinale ma total body con tutto ciò che comporta. Sarebbe stato più tranquillo se non avesse pesato troppo sul sistema sanitario nazionale. Qualcosa per cui ha lottato molto negli anni da sindacalista: limitare gli sprechi, tuttavia nel suo caso avrebbe compromesso la diagnosi. Riassumendo: elettromiografia negativa, e bella fastidiosa, risonanza negativa.

“Guarda, sono stupefatto”, il collega perforatore esibisce un’aria da bambino.

Ecco qualcosa che lo manda in bestia, questo infantilismo incontrollabile.

“Volevi che venisse fuori qualcosa di brutto?”

“Ma ffiguuurati! Voglio dire…”

“Cosa vuoi dire?”

“Leucemia subito esclusa. Non hai la SLA. Non hai nemmeno una leggera fibro mialgia come sembrava possibile ipotizzare dal senso di dolenzia diffusa …”

“Bè dopo quella rachicentesi brutale era il minimo che potessi accusare”.

“Vabbè. Insomma, tutto escluso. Non hai niente. Ma questo non basta”.

“Che altro c’è?”

“Cosa ho visto, vorrai dire?”

“Che hai visto?”

“Anzi cosa non ho MAI visto”.

“Sempre più misterioso…”

“…ahò, t’amo rivortato com’a’n pedalino”, eccolo qua, il romanetto simpatico coi suoi piccoli scivolamenti che ai pazienti piacciono tanto.

“…non solo non hai niente, Mauro, ma hai un corpo invidiabile: sano senza nemmeno un’ombra, una macchia, un minimo accenno di patologia.

Reni liberi, polmoni e bronchi liberi, vascolarizzazione perfetta, fegato immacolato, milza e pancreas puliti”.

* * *

“Cos’altro stavamo inseguendo?”

“Bè, ti ho fatto la risonanza col fiato sospeso: temevo un tumore occulto”.

“Lo temevo anch’io… mi sono detto, vedrai che salta fuori un primitivo…”

“E invece niente! Ti rendi conto? Non hai niente! Gnente! Zero carbonella!”

“Sembra che ti dispiaccia…”, dice Mauro mentre becca il collega a indulgere nell’ennesimo scivolamento romanesco che tradisce mestiere.

“Scherzi? Sai meglio di me che, anche se non traspare, è sempre atroce dare diagnosi infauste. Come se fossimo fantocci senza sensibilità… la gente ci prende per dei cinici senza rimorso, ma vorrei vederli tutti a dire a chi sta male che quello che verrà dopo è anche peggio, e dopo ancora non resterà più niente e che le terapie saranno torture e poi arriverà un momento in cui ci sarà solo disperazione…”

“Il medico pietoso fa la piaga purulenta – si dice così, no?”

“Comunque, non è il tuo caso”

“Certo che no”

“No, dico, nel tuo caso, diagnosi fausta. Faustissima.”

“Ho avuto fortuna.”

“E poi sembra che il tuo corpo sia, oltre che sano, giovane. Sorprendente.”

“Sono un mostro!”

“Un caso da studiare, forse”.

* * *

Quante volte si è trovato a trattare malati terminali a cui non aveva più niente da promettere salvo mantenere costante il regime generale per assicurare una minima qualità di vita fino a quando il male avrebbe preso definitivamente il sopravvento. Quante volte, nel fornire la terapia del dolore a domicilio, ha osservato il lento declino, il richiudersi del male invasivo sul paziente, senza poter fare niente altro se non accompagnarlo e al momento giusto lasciarlo al ciclo che chiudeva il suo iter naturale. Quante volte ha sperimentato la stessa interruzione di rapporto imposta dalla fine, e ha archiviato per fare spazio a un nuovo paziente al quale offrire un margine di manovra. Ogni volta ha fatto un passo indietro ed è tornato nel buio, è scomparso alla vita del paziente con la stessa naturalezza con cui per necessità terapeutica vi era entrato. In nessun caso ha presenziato a nessuna delle esequie. Sarebbe stato assurdo. Indelicato, anzi. Perché la sua figura è legata alla malattia, e alla sua terribile gravità, e alla prassi torturante di assicurare uno standard, allucinante, che, per paradosso, diventa la normalità nei pazienti oncologici. Nessuno può fargliene una colpa: condoglianze e funerali non rientrano nei suoi compiti. Lui agisce finché, fosse anche al lumicino, c’è la vita. Lo scivolamento finale non lo riguarda.

Ha sempre in mente certi versi del Purgatorio,
“A me pareva, andando, fare oltraggio
veggendo altrui non essendo veduto
per ch’io mi volsi al mio consiglio saggio”,

che un suo amico ha spiegato indicando la delicatezza di Dante verso gli invidiosi (condannati a in-videre, cioè a non vedere) in un saggio dedicato al bene. Cosa vuol dire fare il bene? Per esempio, scrive il suo amico, nel <<fare esistere l’altro>>, cioè nel riconoscergli dignità. Se Dante guardasse gl’invidiosi, poiché essi non saprebbero d’essere guardati, si porrebbe verso di loro con ingiustificata superiorità. E allora abbassa gli occhi. Li tiene in considerazione proprio non considerandoli, non offendendoli con la persistenza impertinente e oltraggiosa del suo sguardo.

Lui dopotutto instaura relazioni piuttosto intime con i pazienti.

Se non restasse al proprio posto, se non fosse professionale, che per molti vuol dire freddo, sarebbe invadente, offensivo, oltraggerebbe la loro riservatezza. Fa bene, si ripete, a ritirarsi nell’ombra a tempo debito.

* * *

“Con questa stanchezza come la mettiamo?”

Il collega ha alzato le mani, appunto. Fino a qui ha fatto tutto il possibile con scrupolo ma il corpo a dispetto di tutto è sano anzi invidiabile: non un acciacco non un segno di vecchiezza non un’ombra di degenerazione ossidativa. Zero.

Va bene la reintegrazione dei liquidi e qualche altro supporto farmacologico – poca roba in realtà.

Quando gli hanno comunicato che lo avrebbero dimesso, c’è rimasto male.

Lo sa benissimo che è il prevedibile meccanismo della sindrome abbandonica ma questo non gli ha risparmiato di provarla. Da medico a paziente è niente.

Dopo dieci giorni d’ospedale si sente più sfibrato di prima.

I suoi figli gli hanno detto che adesso è più asciutto, anzi un po’ smagrito.

Si è rasato per togliersi subito l’aria da malato, per rimettersi in ordine.

Adesso che è a casa, anzi al solito in studio, può rileggersi la pagina dell’amico che suggerisce di far esistere l’altro e riacciuffare le poche pagine dell’odissea di Ivan Il’ič. Ma il vero punto è: Stanco sono stanco, ora dove sbatto la testa?

Sandra gli porta un tè fumante. Lui prende la tazza tra le mani nonostante sia bollente, quel calore insopportabile agisce su di lui come un balsamo. Ma non riesce a buttare giù un sorso. Nemmeno a poggiare le labbra sul bordo. Lascia

quasi cadere la tazza sulla scrivania, quasi all’orlo. Sandra si lancia verso le sue mani in tempo per scongiurare che il tè bollente gli si rovesci sulle gambe. Alessandro è a Berkeley e loro da Roma non lo hanno preoccupato inutilmente. Con Luigi (che Sandra chiama quasi solo Louis per via della propria docenza di Francese a Villa Mirafiori), Mauro ha fatto un patto: lo ha autorizzato a non fargli visita mai per non restare inutilmente impressionato. Ilaria ha fatto storie perché a nessuno avrebbe mai permesso di impedirle di andarlo a trovare finché è stato ricoverato: ora che è a casa, sano, fa la disinvolta, finge di non essere per niente preoccupata. Ogni tanto lo guarda credendo che lui non se ne accorga.

* * *

Dopotutto è passato poco più di un mese dalla sera in cui al mare le ha cantato A Sky Full Of Stars. Il ragazzo di Ilaria ha un gruppo, è chitarrista pure lui.

Un giorno, mentre bazzicava per casa, in vista dei 18 anni di Ilaria e della festa, gli ha detto diretto,

“Cioè, scusa, secondo me te je devi fa’ ‘na sorpresa, je devi cantà i Coldplay”

Lui lo ha guardato serio un attimo prima di rotolarsi per le risate.

“Cioè, scusa, noi sonamo e te ccanti no? Cioè calcola che a mezzanotte je fai sta sorpresa…”

Lui capì all’istante che la proposta era seria. E fu pronto a rifiutare.

“Cioè te inizi a ccantà nascosto, no? Poi esci e lei vede che sei te…”

Matteo (naturalmente) gli spiegò che gli avrebbero messo un vero microfono da concerto,

“Cioè così poi imbracci la chitarra e un pezzo sòni pure te, te fai ‘n’assolo.”

“Gajardo, Mattè, ccé sto”, accettò, sfoggiando questa uscita in romanesco, ma era una burla, un’imitazione.

Una vera virata. Aveva cambiato idea in un attimo. Tutto si era svolto nella sua testa, Matteo aveva solo registrato prima la risata e poi l’adesione. Liscio no?

Nel grande giardino al mare, Ilaria aveva sentito questa voce pazzesca, e per un attimo aveva creduto ci fosse Chris Martin in persona, solo che non capiva da dove provenisse. Poi aveva visto sbucare suo padre, avanzare verso di lei col microfono prossimo alle labbra che formavano le parole della canzone, e aveva spalancato un’enorme O di stupore e gioia, e aveva accettato di ballare con lui: trascinante. In pochi minuti si era ritrovata in lacrime e a ridere di eccitazione. E poi era rimasta abbracciata a lui per minuti interminabili finché lui aveva rivelato ai presenti, moltissimi ragazzi e poi amici e parenti di famiglia, che la bizzarra idea era venuta a Matteo e alla band, giovanissimi e già ganzi.

Così aveva detto, Ganzi!

* * *

Il vecchio Matt ride come un bambino quando Mauro usa questo aggettivo a cui lui non sa trovare un vero corrispettivo in inglese: ripete ganzo con la zeta semiliquida e lo confonde con gancio – hook, e allora Mauro deve stare lì a spiegargli che ganzo non è un sostantivo, poi gli ricorda che Michael Jackson in This Is It canta I feel grand, e che ganzo somiglia a awesome o impressive ma si tratta dopotutto di approssimazioni. Un corrispettivo diretto e intero non c’è. Però tutti quegli aggettivi ricorda di averli formulati, di averli pronunciati dentro di sé, quando, inseguendo la sua idea di una fonte, unica e ad uso del paziente, erogatrice di un mix efficace di analgesici nel trattamento del dolore severo, tornò a New York all’inizio degli anni Novanta con l’idea di conoscere l’inventore dell’elastomero, per potergli dire che era ganzo: il suo dispositivo, e anche lui in persona. In realtà il dottor Philip H. Sechzer era già in pensione da qualche anno, era molto anziano e ciononostante andava in Cina perché aveva maturato un definitivo interesse per l’agopuntura. A Manhattan e a Brooklyn conobbe colleghi che lo avevano conosciuto e avevano diffuso la macchinetta di sua invenzione con grande sollievo per molti sofferenti, cronici o terminali. Non poteva crederci che la pompa elastomerica esisteva dal ’71, e in Italia, nei suoi cinque anni di specializzazione, conclusa nell’’89, veniva presentata come novità ma non caldeggiata, come fosse un bonus da meritare e non un rimedio standard.

* * *

La stanchezza non è affatto passata, è trasversale e totalizzante.

Fosse ancora vivo Cesare, adesso potrebbe porgli la questione, e lui saprebbe come minimo avviare il ragionamento in modo corretto. Non che questo li salverebbe da un’aporia, ma almeno saprebbero come impostare il discorso.

E invece sono già dieci anni che li ha piantati tutti in asso. Infarto secco.

Del resto quel rapporto medico-paziente quando Mauro era adolescente non fu mai corretto. Clandestino e scorretto. Eppure efficace.

Ha questo appunto con il numero di uno specialista su indicazione del collega neurochirurgo. Vuole chiamarlo domani. Cioè, concordare un appuntamento.

Si sente esausto al solo pensiero di dover rispiegare tutto daccapo, e fare una sintesi del ricovero, degli esami fatti, della sua curiosa situazione di affaticato cronico che lo psichiatra rubricherà subito come? Sindrome simile a paturnia? Principio di nevrosi?

* * *

È mezzanotte ed è ancora alla scrivania. Non ha l’ombra del sonno e ha un mal di testa latente. Se si slatentizza, sò cazzi (ridacchia tra sé, soddisfatto).

Avrebbe a disposizione un arsenale di analgesici ma non intende approfittarne.

Tra un po’ si stenderà sul divano dello studio dove spesso dorme, o meglio vortica come un’anguilla, riuscendo a chiudere gli occhi per due o tre periodi di mezz’ore durante la notte. Non ha cuore di infliggere a Sandra la sua insonnia. È una trasformazione recente. Il fatto che lui dorma o cerchi di dormire in studio invece che a letto con lei, e il fatto che, dopo che fin dai suoi 15 anni ha dormito poche ore filate tra mezzanotte e le cinque, ora quel pugno d’ore è una lotta estenuante. Per anni si è infilato sotto le coperte accanto a lei con attenzione per non disturbarla, ora lo fa raramente perché gli sembra assurdo togliere il sonno anche a lei.

* * *

La difficoltà maggiore nel resoconto che dovrà fare allo psichiatra sta nel fatto che non ha identificato un fattore scatenante perché non c’è stato.

Non c’è stato un solo episodio significativo che l’abbia messo in ginocchio.

Si è ritrovato disarcionato senza soluzione di continuità: questa maledetta espressione adesso è un muro che riesce a non dirgli nulla, deve pensarci su un po’ prima di capire se si attagli al suo personale caso. Però forse proprio questa espressione ora gli sta aprendo un piccolo varco nel cervello, gli sta indicando una pista nuova, forse adesso gli sta mostrando un sentiero stretto e più chiaro.

Nessun fattore scatenante, infatti. Piuttosto una spina irritativa.

Un senso diffuso di miastenia da quindici giorni buoni non lo lascia: è questo l’unico sintomo costante. Ma a cosa si dovrebbe ricondurlo? È pulito. E allora?

* * *

Tanto vale che lo ammetta. Si sente spezzato. Ha addosso un carico immenso. Gli pare d’essere come Atlante che porta il mondo sulle spalle. Tanto vale che ammetta di aver avuto troppa fiducia nelle proprie forze, di aver imboccato troppe strade parallele nel suo lavoro: l’ospedale, la facoltà, la ricerca, le cure palliative domiciliari. E zero ferie se non quelle inevitabili. Il direttore sanitario lo rincorre da qualche anno col calendario alla mano per costringerlo

“–a prendere giorni liberi almeno a macchia di leopardo, a zona!–”

perché il SSN lo obbliga. Rischia d’avere un richiamo se non si mette a riposo. Ma prima d’ora non aveva capito di averne bisogno. Per la prima volta capisce che la realtà lo assale, e lui che credeva di dominarla, di organizzarla, di gestirla – gli è anche uscita un po’ di mente, in questi giorni di forzata vacanza e quasi malattia. L’agenda si è smagliata. Nei primi giorni di ricovero gli hanno pure tolto il cellulare, proprio per sottrarlo al tampinamento dei pazienti e dei loro parenti. Lo diceva lui che la vita da paziente ha i suoi vantaggi: si vive protetti.

Un bel vivere, purché per poco.

* * *

Domani andrà dallo psichiatra a dirgli che si tratta di banale esaurimento – come ha fatto a non pensarci? Vuole stare in vacanza per un po’. Domani prende la macchina e va qualche ora al porto, sistema la barca. Forse salpa.

—–

Accanto al titolo: “Scienza e carità”, un dipinto di Pablo Picasso del 1897.

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