Giuliano Compagno
Al Teatro Lo Spazio di Roma

La vita è un Esodo

Storia di un incontro, in margine a uno spettacolo di Ashai Lombardo Arop dedicato al movimento perenne dell'esodo: una voce (viva) contro una cultura senza uscita

Certi spettacoli non sono mai repliche, non sono mai riprese ma sempre prime. E talvolta sono prove generali, messe in scena di fatti appena avvenuti. Come un Esodo che non c’è modo né senso di fermare, come se l’erranza fosse mai stata differente da un movimento progressivo verso altri luoghi, altri volti. Dall’umano impulso verso l’ignoto, per poi risedersi in compagnia dell’ansia e della nostalgia. Me la sono andata a cercare, lo ammetto, avevo bisogno di rimettere al loro posto le stupidaggini da comizio di un ministro dell’interno che non sa cosa sia l’esterno… Eppure non mi attendevo, al centro del palco, una figura come quella di Ashai Lombardo Arop. Evidentemente era una mia lacuna non avere ancora ascoltato un’invettiva così potente a margine di una questione banalizzata ed esorcizzata da un decennio di fobico delirio. La questione del Migrante. In fondo Ashai riprendeva una via della memoria che era già stata battuta, malamente, a più riprese, nel solco della rassomiglianza. «Noi migravamo. Noi invadevamo altri territori. Noi eravamo allora come loro sono adesso…». E tale equazione, ripetuta con semplicistico snobismo, provoca la furia dell’interlocutore, già rabbioso di suo, a cui è rivolta. Perché le tre grandi passioni umane sono l’amore, l’odio e l’ignoranza, il che lo aveva ben detto Jacques Lacan a divinazione dell’epoca odierna, allorquando il loro manifestarsi avviene spesso in assoluta sincronia. Ashai Lombardo Arop era un primo piano teneramente spietato; il suo sguardo pareva cercare sostegni impensabili, eppure si illuminava di provocazioni. Sul serio eravamo stati quella “razza” di canaglie? Non erano solo i Brutti sporchi e cattivi?

Poi lei pronuncia Ellis Island, io resto folgorato da un titolo di Georges Perec e annoto: vai a rileggere. Vado ora. Aspettate un attimo… Eccomi tornato. Sì, Racconti di Ellis Island. Storie di erranza e di speranza dava il titolo a un documentario che Perec e Robert Bober avevano realizzato su commissione dell’INA tra il 1978 e il 1980. Il primo è ormai scrittore celebre, il secondo di notorietà più sottile. Perec è morto a soli 46 anni, Bober è un ottantasettenne che vorrei andare a trovare prima che lui o io dovessimo raggiungere Georges nell’eternità dell’Oulipo. Entrambi di origini ebraiche: l’uno che, duenne, è già esule da Berlino a Parigi; l’altro, il Perec di famiglia ebreo-polacca, che a nove anni viene adottato da sua zia, perché nel 1940 il padre Icek muore in guerra e nel 1943 mamma Carla è trucidata ad Auschwitz. Insomma non è che certi sodalizi nascano per avventura.

I due francesi vanno a cercare immagini e storie di un altro continente; sentono che in quell’attesa di sedici milioni di esseri umani c’era qualcosa che evocava una deportazione soft. Infatti, a un’accurata ispezione sanitaria seguiva una trentina di domande di rito: nome e paese di provenienza? Perché vieni negli Stati Uniti? Quanti anni hai? Quanti soldi hai? Dove li tieni? Mostrameli. Chi ti ha pagato la traversata? Hai con te un contratto di lavoro? Hai amici, parenti o qualcuno che garantisce per te? Che mestiere fai? Non è che per caso sei anarchico? Ora, quell’interrogatorio risultava assai più prevedibile della scandalosa e orrenda considerazione in cui erano tenuti i tanti italiani giunti in America con affidata speranza. Tutto questo Ashai lo racconta riprendendo L’Orda di Gian Antonio Stella, un pugno nello stomaco nel sentire di noi italiani ridotti al vituperio, all’offesa della degradazione e dell’animalità. Poi ci stanno delle poesie ben raccolte, delle canzoni indimenticabili, la danza di Sara Spiro e di Giulia Alvear Calderon e insomma, quel senso di compiutezza che avverto un attimo dopo aver applaudito, libero come mi sento e solo come mi trovo, nel retropalco di un teatro romano che si chiama Lo Spazio, a congratularmi con l’autrice.

Dopo di che, Ashai sta bevendo un caffè lungo e io sto cercando gli occhiali da vicino, altrimenti non potrò appuntare alcunché. Li trovo ma nulla annoterò in ogni caso, a parte qualche nome. Volevamo montare un dialogo su arti e migrazione ma ne viene fuori qualcosa di meglio. Narrarsi, sorridere, chiedersi cosa mai stia accadendo, fare dei progetti, esercitare la memoria o la conoscenza; viene concepita da padre sudanese e madre reggina, e partorita a Genova nella di lui assenza. È uno splendore di bimba, cresce e colleziona i complimenti di chi la incontra, finché l’ammirazione della gente va a concentrarsi sul suo perfetto italiano, nonostante ella non sia perfettamente “bianca”. Infine Ashai decide di trasferirsi in Inghilterra, dove non vi è chi la esamini e le metta i voti. Si sente libera ma intanto ha perduto una patria che comunque le appartiene e che sente sua. Perché è una donna italiana, sicché qui torna qualche anno dopo con il sano desiderio di raccontare la sua storia. Chi vuole, ascolti; se no la porta è quella.

«Mio padre si chiama Louis Kuol Arop. Mi dispiace essermelo goduto poco ma è stata la sua vita, è stata la sua cultura profonda di uomo informato, impegnato, coraggioso. Sono sua figlia e solo nel dirlo mi sento fiera. Quando insegno danza immagino figure di uomini altissimi, com’era lui, che mi facciano ombra o che seguano con passo lungo i miei movimenti. La mia origine è un luogo talmente lontano da non essermi mai stato estraneo; la casa di Louis Kuol, ad Abyei, fu distrutta nel 2008, quando era già esule in Canada. Mio padre è Dinka, uno dei gruppi etnici più importanti e conosciuti dell’Africa, che abita nel sud Sudan e che mai ha rinnegato la pratica di una pastorizia quasi simbiotica con l’animale, seguito e curato tanto da essere integrato nella tribù stessa. I Dinka sono alti quasi due metri e sono neri come una vera notte, e di anno in anno resistono alla stagione delle piogge. Ma non solo. I Dinka sono stati vittime quant’altri mai del regime di Khartoum, da cui hanno patito schiavitù, deportazioni, uccisioni, sottrazione di terre. La religione e la cultura non c’entravano. Quella guerra era figlia del petrolio. Prima che gli eventi precipitassero, mio padre lavorava al ministero della cultura sudanese, redigeva la rivista “Sudanow” e si occupava di diritti civili. In Italia è transitato per poi andare a Edmonton. Quasi trent’anni lassù, dove a ogni giro di Terra seguivano tre mesi di gelo e cadeva un metro e mezzo di neve. Ma lì si era formata una piccola comunità intellettuale di rifugiati Dinka e lui poteva continuare a pensare e a dubitare».

Ashai è un volto perpetuamente sospeso tra le sue lacrime e il suo sorriso; per questo è impossibile difendersene. E soprattutto sarebbe stupido provarci. Non per coincidenza mi ha subito parlato di un progetto sull’empatia da diffondere nelle scuole. Io in un certo periodo dovetti studiare Victor Basch, che non era proprio un filosofo leggero (come un francese che se la tiri); eppure grazie ai suoi scritti mi ero un po’ edotto su quel genere di infusione dell’esperienza estetica che possiamo definire empatia: il penetrare, il vivere, il divenire un’Opera. Mi è apparso presto chiarissimo in che misura la danza, il canto e la recitazione, a cui tanto questa artista si è applicata, altro non siano state che espressioni di un universo sensibile che le è appartenuto da sempre, nonostante Ashai fosse una donna nata e vissuta in Europa, o in quel che oggi rimane di un continente così forte, nel recente passato, da aprirsi e difendersi, da insegnare e imparare al prossimo senza che potesse cogliersi la minima differenza tra le due attitudini. Da Senza radici a Esodo, passando per i film e per i progetti sociali, per gli impegni della coreutica e della scuola, e quasi sempre affrontando una sfiancante autoproduzione o la grottesca pretesa identitaria da parte di chi non possiede, di italiano, un bel nulla, ignoranza e stupidità a parte.

«Questa situazione mi fa un po’ pena. E un po’ rabbia. Mi pare di avere una pistola puntata alla schiena e non mi piace. Probabile che non sia eroica come mia madre, che si è inventata come una bravissima infermiera del Pediatrico genovese e ha fatto della solitudine un’arte, ma io non smetterò di ribellarmi alla mediocrità di questo male. Se lo faccio in modo poco sfacciato, è perché ammiro l’esempio di Nina Simone, che con la musica pronunciava frasi fortissime. Io non vivo nel conflitto ma ho una voce e la uso. Ora mio padre vive ancora più lontano, a Brisbane, ma la nostra distanza non la potrò più colmare. La sue mente è andata via e sono mesi che mi domando se sarà bello riabbracciarlo. O soltanto doloroso.»

Salutare. Dire addio a un padre. Dire ciao senza che un dialogo sia terminato davvero. Dire del Sublime che raccoglie bellezza e dolore persino all’attimo di un congedo estremo. Poi c’è il silenzio di quando ha appena smesso di piovere e senti addosso la stranezza di Roma, che grazie al cielo sa regalarti una sorpresa. Già, sei andato a vedere uno spettacolo in una piccola sala e hai finito per vagare tra quattro continenti. Infine – da modesto emulo di Georges Perec – ti sei accorto che nel nome Ashai era contenuta la terra mancante, l’Asia, e ti è apparso il mondo intero. Un Esodo si era compiuto. Che meraviglia!

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