Alessandra Pratesi
Visto al Teatro India di Roma

La scena scortecata

Emma Dante è capace di appropriarsi di una fiaba antica e di estrarne l’essenza, letteraria e antropologica. Lo dimostra ancora una volta con "La Scortecata", dopo il 60° Festival di Spoleto arriva al Teatro India di Roma

«Fulmineo / precipita il frutto di giovinezza, / come la luce d’un giorno sulla terra. / E quando il suo tempo è dileguato / è meglio la morte che la vita». Che Gioventù e Amore fossero i volti della stessa medaglia Mimnermo lo credeva, e lo temeva. Il poeta elegiaco nel VI secolo a.C. si interrogava su cosa rimanesse all’uomo senza poter godere delle gioie dell’amore, su cosa rimanesse una volta superata l’età d’oro della giovinezza. Nella sua Scortecata Emma Dante prova a rispondere, ripartendo da uno dei cunti secenteschi di Giambattista Basile. Quella della regista palermitana è una risposta che si tinge dell’amara delusione delle aspettative grandi e impossibili. Lo spettacolo, che era stato presentato al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 2017, a novembre 2018 arriva al Teatro India di Roma registrando, in una quieta domenica pomeriggio, il sold out: indice che la qualità di forma e contenuti premia.

In scena soltanto due sedie e il plastico di un turrito castello bianco e blu, chiaro ammiccamento al castello delle fiabe per antonomasia, quella dimora di Ludovico II di Baviera che Walt Disney immortalò facendone il simbolo del suo impero e della sua visione del mondo. A muoversi in questo spazio tutto mentale definito da pochi oggetti-simbolo, due nerboruti e vigorosi uomini di sangue partenopeo, Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola, rispettivamente Rosalina e Carolina. Perché la vecchiaia è asessuata. Perché a teatro il corpo dell’attore è maschera neutra. Perché l’interrogativo su cosa significhino amore e vecchiaia, ovvero le domande sul senso ultimo della vita, riguardano tutti, senza distinzione di genere e di età. L’espediente sarebbe poi ritornato nell’Eracle firmato per il Festival del Teatro di Siracusa 2018, che vanta un cast tutto al femminile (possente figlio di Zeus incluso). L’attenzione per la terza età, con quella commistione di tenera empatia e dura verità nella vivisezione dei comportamenti, segno distintivo della Dante, erano già stati al centro di un altro spettacolo, Ballarini (2011): in una notte di Capodanno due anziani ricordano e danzano a ritroso nel tempo, fino a recuperare le forme e l’energia della gioventù.

Emma Dante è capace di appropriarsi di una fiaba antica e di estrarne l’essenza, letteraria e antropologica, con l’energia travolgente di un teatro che non lascia mai indifferente. A rendere sanguigno e vibrante il racconto della Scortecata contribuisce la scelta del napoletano (la lingua di Basile, del resto) , con quel suo tono tragicomico, grottesco, immaginifico in virtù del quale persino la bellezza si incrina e ha un suono sgradevole: «bellezzitudine». La pelle cascante delle vecchie sorelle è «pellaccia che avanza», ben lontana da «lo primo taglio di carni bianche», i capelli sono «ingrifati» e la bocca «squacquerata», mentre i dolori alle ossa diventano un capitolo del «libro mastro degli acciacchi». Tutto è amplificato: «sei talmente brutta che fai schifo pure allo scuro», «se metti la testa fuori, ti arrestano per oltraggio al pudore». Le parole pronunciate e agite restituiscono la materia viva del racconto, complice la superba interpretazione di D’Onofrio e Maringola. Vestono retine per capelli e lisa biancheria anni Trenta, con le note di Mambo Italiano e con un lenzuolo mimano un amplesso, piagnucolano e simulano il verso del «cardillu innamuratu», con una giarrettiera si incoronano re, una tavola di legno è sufficiente per alludere ad una porta: i tempi comici sono a prova di risata e di orologio. Il siparietto dell’anziana che si siede, il battibecco tra comari, la mimica facciale degna delle maschere della commedia dell’arte accompagnano, in un ritmo serrato, la storia in un crescendo di illusione e disillusione.

Nella versione della Dante, il lieto fine per l’una sorella e l’auto-squartamento dell’altra si trasformano in un diverso tipo di taglio: quello della finzione teatrale. Il velo di Maya, la quarta parete, il patto tra attori e pubblico è volutamente squarciato. «Basta cu sta commedia. Non ci credo più nelle favole, mi sono stancata di essere vecchia», dice l’una, mentre l’altra brandisce un coltellaccio da macellaio pronta a togliere la pelle vecchia per far uscire quella nuova. Nel momento stesso in cui abbassa il braccio accingendosi alla crudele azione, le luci (firmate da Cristian Zucaro) si spengono. È l’ultimo passaggio, studiatissimo e millimetrico, di un ingranaggio drammaturgico e scenico che rasenta la perfezione in 60 minuti di una densità e intensità che si imprimono sulla pelle dello spettatore.

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