Danilo Maestosi
Alla Galleria comunale di Roma

La ruggine dell’Ilva

Un’installazione in dieci opere di Antonio Bernardo Fraddosio sul caso Ilva, «Le tute e l’amianto», impone allo spettatore una riflessione dura sul conflitto tra salute e lavoro: un fantasma di ferro e piombo

Con il via libera del nuovo governo, il caso Ilva sembra destinato a scivolar via dalla luce dei riflettori sigillato da un accordo che sancisce il passaggio a una multinazionale indiana: contenuti tagli del personale, impegni di riconversione che puntano a ridurre nel tempo i livelli d’inquinamento urbano. Promesse che allontanano e declassano l’emergenza. I rischi per la salute trasformati da incubo nazionale a paure private, spazzatura che può finire sotto il tappeto. Poco importa se quel mostro sputaveleno, inaugurato nel 1965 nel cuore della città abitata a stravolgere la bellezza e la vita di Taranto sia già una sconfitta, una delle tante inanellate dalla miope idea di progresso dell’Italia del boom. Poco importa se da allora il futuro di Taranto e ogni lotta per inventarne uno più incoraggiante siano stretti dalla morsa di un doppio dilaniante conflitto tra due squilibrati diritti costituzionali: la difesa del lavoro (l’Ilva come risorsa economica e fonte d’occupazione irrinunciabile) e la difesa della salute (l’Ilva come spada di Damocle, agguato di morte per tutti i cittadini).

È un dilemma da tragedia greca che ci rigetta addosso, come misura e questione di civiltà, come un problema irrisolto e sospeso che nessuno può eludere, un’opera d’arte esposta fino al 3 marzo nel cortile della Galleria comunale d’arte moderna di via Francesco Crispi a Roma, per iniziativa di due curatori di vista lunga e controtendenza, Gabriele Simongini e Claudio Crescentini: Le tute e l’amianto, il titolo che ne riassume la provocazione e la sfida.

È un’istallazione firmata da Antonio Bernardo Fraddosio, sessant’anni ben portati, scultore nato a Barletta ma da oltre venti anni traslocato in uno studio nella campagna di Tuscania, nel Viterbese, dove continua a sviluppare per cicli tematici una rigorosa ricerca espressiva di impegno sociale. Quel che resta dello sviluppo: è il capitolo che ha iniziato a scrivere con questo primo grande e complesso lavoro, che inizia il suo ciclo di vita qui a Roma ma, nelle intenzioni e nelle speranze dell’autore, dovrebbe essere montato e offerto allo sguardo di tutti non in un museo ma all’aperto in varie piazze d’Italia. Esibito come un monito ingombrante e inquietante. Soprattutto di chi ha smesso di indignarsi ed emozionarsi. O di chi confina emozioni e condivisione solo nel tempo breve dell’emergenza.

È uno spettacolo in dieci quadri. Impaginato con un colpo d’ala di grande impatto visivo, all’interno di dieci grandi casse di ferro, addossate in cinque gruppi l’una contro l’altra, e sormontate da una ragnatela di tralicci metallici a sostenere fari che di notte illuminano le varie nicchie. In ogni nicchia, appese ad un chiodo, le pieghe di una tuta appena dismessa che evocano le contorsioni e le ferite dei corpi che le hanno indossate. Il primo intento, spiega Fraddosio, è stato quello di simulare, i camerini, lo spogliatoio di una fabbrica, l’Ilva. Gli involucri sono rugginosi, di un rosso cupo e sfrangiato che vira verso il marrone. In basso, sul fondo, ognuno è contrassegnato da una lettera e delle cifre, i simboli chimici delle sostanze tossiche che il fuoco degli altiforni produce e solleva, amianto, zinco, piombo, molibdeno, e così via. Il secondo intento, quello di restituire l’architettura stridente dei balconi, vuoti e tamponati con ogni mezzo, le quinte opprimenti tra cui sfili se attraversi il quartiere Tamburi, quello che fiancheggia la fabbrica. «Non si può vivere in quelle case tinteggiate dalla fuliggine e dalla polvere. Ma la gente ci vive e ci muore».

Il pieno e il vuoto. Fraddosio ha sempre giocato su questa alternanza di piani. Ma è il vuoto quel che ora, qui, colpisce di più. Questo vuoto la materia su cui Fraddosio lavora, il richiamo immaginario con cui ci obbliga a misurarci. Le sue sculture, lastre d’acciaio ondulato e sagomato col fuoco, che riverberano vibrazioni di colore sprigionate solo dal calore, sembrano corazze. O ancora scheletri di corpi, ridotti a pura pelle, che rivendicano e ostentano lo strazio, l’umiliazione, la fatica a cui quei corpi assenti sono stati esposti. Un supplizio che ci viene da associare a quello di un crocifisso, forse le piaghe rugginose, forse più ancora quelle travi con le luci che disegnano nello spazio le braccia di altrettante croci. Ma il martire non è un Dio che risorge, riprende forza luminosa e ci illumina. La sofferenza è quella di condannati anonimi, qualunque, senza meriti e speranza, solo il destino di essere inchiodati ad un lavoro che uccide, e se non tocca a te può toccare ai tuoi cari che ti aspettano. E solo quelle parvenze, una diversa dall’altra, appese in bacheca, a ricordarci che sono uomini.

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