Mario Di Calo
Due spettacoli in scena a Roma

Iperurania Iodice

Davide Iodice mette in scena due testi di Lucia Calamaro e Nunzio Caponio: due apologhi sulla comunicazione che trasformano il futuro in un incubo insostenibile

Davide Iodice ha completato la sua formazione di regista a Roma (presso l’Accademia d’Arte Drammatica) ma è a Napoli che ha consolidato la sua presenza di artista e agitatore culturale. E a Roma è ritornato recentemente presentando due suoi spettacoli a poca distanza l’uno dall’altro: Urania d’agosto di Lucia Calamaro per Sardegna Teatro (nella foto accanto) e Don Chisci@tte di Nunzio Caponio per Arca Azzurra Produzioni rispettivamente in scena a Spazio Diamante (26/28 ottobre) e al Teatro Tor Bella Monaca (2/4 novembre). Due spettacoli che offrono molti punti di contatto, fino a essere quasi speculari.

In entrambi i casi, il regista opera un transfert drammaturgico. In Urania d’agosto si parla di una donna in avanti con l’età, ostinata lettrice e ri-lettrice di Urania – celebre magazine di fantascienza edito per la prima volta negli anni Cinquanta del secolo scorso ma che ancora ha una folta frangia di appassionati seguaci –: la cogliamo in un momento di solitudine agostana in cui il mondo immaginario a cui è fortemente, ostinatamente legata e a cui ricorre soprattutto di notte viene sovrapposto a quello della vita reale in un delirio post-esistenziale, notte e giorno si scambiano in un abbraccio freddo, glaciale, estetizzante. E dunque il regista crea una sorta di ambiente asettico, senza identità, arredato da pochi elementi scorrevoli (un letto d’ospedale, un tavolo rettangolare e una sediolina da doccia per anziani) che si modifica nel corso della pièce fino a diventare pianeta Uranio da cui prendono ispirazione i prediletti romanzi. Ad accompagnare questo percorso di ascesa della protagonista – Maria Grazia Sughi, brava e generosa nel designare un delirio dell’esistenza, malattia di vivere del suo personaggio – una presenza/assenza di una badante/automa/astronauta o di azzurro vestita o con scafandro spaziale, bellissima immagine finale, mentre si accompagna con un violoncello, interpretata con muta adesione da Michela Atzeni.

Don Chisc@tte (nella foto), invece, è un dialogo fantasmatico, immaginario, a ritmo serrato fra un padre e un figlio – che s’imparentano, in linea retta con gli Hamm e Clov di reminiscenza beckettiana – sulla fisica/meccanica quantistica o su un probabilissima (oramai) società/governo zombie, costituito, amministrato e somministrato da altrettanto zombies, brutti fuori e belli dentro ma anche e assolutamente il contrario di esso. Al centro c’è un papà Chisc@tte che s’innamora di un giovane transgender, conosciuto in rete, che diventa la sua Dulcinea: il suo errare cavalleresco si compie attraverso discorsi che lancia a ogni pie’ sospinto nel mondo del web. E quella chiocciolina informatica comparsa, improvvisamente, nel suo acronimo lo sta ad attestare. È un sapiente e folle manipolatore del mondo dell’informatica che vuole salvare il pianeta dalle malefatte dell’uomo e che solo l’Amore salverà. E alla fine quella valanga interminabile, sconfinata di likes che riceverà attraverso video-messaggi sarà la comprova, della sua ragione/follia, un giusto finale per un impresa davvero ardua: Don ha tanto agito senza muoversi di un passo. E la coppia ben assortita composta, da Alessandro Benvenuti e Stefano Fresi, con generosità si offre in pasto al torrente irrefrenabile di parole che vengono da loro restituite al pubblico. L’ambiente, anche stavolta, è apparentemente impersonale: un’autofficina dove il ronzino è appeso al chiodo, rappresentato da una bicicletta in riparazione. È quasi un rifugio antiatomico che diventa un luogo della mente se solo vengono proiettate a tutta pagina il Monte Fuji o le immagini di due samurai che replicano quel combattimento padre e figlio. In questo spazio formalmente angusto trovano ulteriori forme di deflagrazione, di sfondamento, i messaggi che Don lancia al suo popolo di followers: sono proiettati su di una saracinesca che comunica con l’esterno, che è così doppiamente veicolo di passaggio.

Il testo/pretesto, o che sia di Lucia Calamaro o che sia di Nunzio Caponio, diventa un tessuto connettivo necessario, urgente, senza del quale l’animale uomo non può comunicare con i propri simili e il creato che gli è stato dato in consegna, Il compito di Davide Iodice è quello di far levitare la scena come una navicella spaziale e condurci per mano verso pianeti sì freddi, sconosciuti, imperscrutabili ma che traboccano di emozioni, di cuore, di commozione. Le scene e i costumi particolarmente belli sono in entrambi i casi di Tiziano Fario e Daniela Salernitano.

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