Danilo Maestosi
Al Museo del Corso di Roma

Ennio Calabria, l’eretico

Una grande mostra ripercorre la lunga parabola artistica di Ennio Calabria: dall'eresia comunista alla ricerca affannosa dell'essenza dell'uomo. Il percorso affascinante e inquietante di un grande maestro

Verso il tempo dell’essere. A sessant’anni dalla sua prima personale, e ad oltre 30 dall’ultima antologica a Castel S.Angelo, una grande retrospettiva appena inaugurata e in cartellone fino al 12 gennaio al museo romano del Corso ci consente di ripercorrere l’intero arco della lunga carriera di Ennio Calabria. E di restituirgli la corona di gran maestro di pittura, di pensiero e di vita, che il sistema miope e modaiolo dell’arte contemporanea gli ha ingiustamente sottratto.

Verso il tempo dell’essere. Il titolo con cui lui stesso ha voluto battezzare questa mostra e il percorso di ininterrotta ricerca che documenta, consegna al visitatore tre bussole, tre chiavi di lettura apparentemente cifrate, impalpabili e sfuggenti. Verso: in che direzione guardare per raggiungere le sue opere e il suo sguardo? E che cos’è quell’essere che Calabria ci indica come meta da inseguire? E ancora: cosa indica quel tempo che ci srotola davanti come un filo d’Arianna? No, non è un gioco di prestigio filosofico quel sovraccarico di domande, nel quale possiamo riconoscere il senso di smarrimento che tutti ci assale, come un marchio inconfondibile dell’essere uomini: chi siamo, dove siamo, dove stiamo andando? Piuttosto una delimitazione di campo, una data in calce al nostro colpo d’occhio che ci riporta al qui ed ora che stiamo vivendo, ma è anche eco del nostro passato e indizio del nostro futuro. La pasta di cui la pittura si nutre e ci nutre. E magari ci suggerisce un appiglio, qualcosa a cui sostenersi. Perché il viaggio attraverso la pittura di Ennio Calabria è un’esperienza turbinosa simile a una camera del vento, a un attraversare una piazza quando la  tramontana imperversa.

La prova di questo vacillare degli appoggi e dei sensi da cui lo spazio dei quadri di Ennio Calabria ruba asimmetrie e geometrie ce la offre proprio la prima grande sala, dove l’abile regia del curatore Gabriele Simongini e la preziosa consulenza di Rita Pedonesi, custode dell’archivio Calabria, hanno raccolto le tele più grandi, tutte dipinte nell’arco dell’ultimo trentennio, molte nell’ultimo decennio, alcune realizzate proprio per quest’occasione. Basta varcare la soglia e porci al centro per essere investiti da un turbine che agita le figure, le contorce, le mutila, le avvita al proprio compito di testimoni e attori, le avvolge nel manto delle proprio emozioni, dei propri dolori. Le muove in una realtà che si muove, più veloce delle nostre percezioni. Perché è in questa sensibilità per il movimento, nell’attestarsi sulla forza trainante del tempo, la cifra inconfondibile del nuovo corso che Ennio Calabria, attraverso la sua pittura, ha impresso all’arte di figura, al coagularsi e disfarsi delle icone in cui continua a specchiare il suo dentro e il suo fuori.

Una reinterpretazione del mondo che da subito è entrata in conflitto con la deriva dell’astrazione preferita dai critici più in voga , ma anche con la visione del reale pietrificata dalla cultura comunista, cui pure Ennio Calabria aveva aderito giovanissimo e si è mantenuto fedele, e dall’arbitraggio dittatoriale di Guttuso che pur ostentadogli stima e amicizia aveva finito per scomunicarlo: guai a sostenere che nel cosmo tutto ruota e si muove, figurarsi qui in terra, sei e diventi un eretico da mettere al bando. A Ennio Calabria è successo. E continua a succedere. Un peccato originale d’umanità.

Umano, troppo umano quel Cristo appeso, già ammirato due anni fa a Sant’Andrea della Valle, che quasi ci crolla addosso, il collo girato, una mano che si è sottratta alla tortura del chiodo e ora aggrappa la sua sofferenza alla trave di legno. Umana, troppo umana forse, quella Vergine, colori di stesura recente, che cala giù dall’alto in una spirale da rito mistico, liberandosi a poco a poco della prigione da icona in cui è incastonata, per poi coagularsi nell’identità di una madre di tutte le madri gravata dal peso del parto imminente. Umani, troppo umani quei corpi aggrappati tra le ombre salmastre di uno scoglio, che nel 2016 gli si sono rivelati come personaggi in cerca d’autore, sulla marina dove trascorre l’estate.  Umane, troppo umane, come cadaveri in decomposizione, cavie di un atroce, insensato dissolversi, quelle sembianze convulse di membra che in Patologia della luce del 2012, ha dipinto su un letto di sabbia, solcato dall’ombra di una croce. Troppo umani nella loro sbigottita fragilità quei due portavessilli di una stagione tramontata e alle spalle, in mano le aste di bandiere rosse sfilacciate e ridotte a brandelli che non possono più sventolare nessuna sfida ma si trascinano appresso come stracci. Personaggi che Calabria scelse nel 2012, per un quadro, «Il pensiero nel corpo» esposto alla Biennale di Sgarbi, come emblema di una confessione e di un suo nuovo teorema: «Abbiamo fisiologizzato la cultura della Storia e quelle che furono le furono le nostre bandiere sono diventate la nostra stessa pelle».

Ma al coro di quel turbine di immagini in fibrillazione si aggiunge anche la danza di quei tre fantasmi semitrasparenti su fondo bianco, in bilico su una china in salita, che catturano la vita in un quadro del 2018, dal titolo eloquente, Ombre del futuro. E quel groviglio inorganico in bianco e nero, ultimo relitto di un parapioggia disfatto e contorto, che ho visto nascere mentre si preparava la mostra: L’ombrello è rotto: paura dell’acqua, un titolo secco come un telegramma spedito da una persona, un amico, un vicino, precipitato in crisi d’insicurezza. E poi se avvicini l’occhio alla trama della tela c’è la scoperta di un reticolo di venature e segni astratti che increspano ovunque le figure e lo sfondo, come se la pelle delle icone di Calabria ci manifestasse così, con quei brividi, la presenza del tempo che le percorre come una carezza di vento.

Sì, che gran colpo di teatro in quella prima sala, che a me ha riportato in mente la scena madre della Tempesta di Shakespeare, quel ciclone dove solo le comparse sembrano annegare e in cui ognuno perde, vede ribaltato e deve ritrovare il suo ruolo. E lui, Ennio Calabria, col suo corpo minuto, con quel volto pensoso e corrucciato, lì a dirigere, il giorno del vernissage, quella nube impazzita di segni, colori, angolazioni, nella doppia parte di Prospero e Calibano. Mago, profeta e capro espiatorio alle prese con le sciagure, i capricci, le debolezze del mondo. «Guidato – lui stesso ci spiega – non dal pensiero già pensato, che non regge più, neutralizzato dal crollo delle ideologie e del ragionamento per opposti. Ma dalla pittura, che è sempre più avanti di me. Un liquido biologico da cui scaturisce la vera creatività. E un prezioso, insostituibile, strumento di conoscenza, in una società che ha abbandonato i vecchi parametri e restituito, ci piaccia o meno, un ruolo centrale all’individuo, motore e archivio vivente di ogni cultura possibile, e alle sue pulsioni».

È una visione del presente e del futuro che Ennio Calabria ha messo a fuoco proprio attraverso la pittura negli ultimi trent’anni, liberato anche dalla dolorosa caduta delle certezze che governavano il suo impegno di militante , ma non dall’attenzione per il sociale. Attraverso una serie di fasi che questa mostra ci consente di individuare, con un percorso a ritroso che si snoda nelle altre sale, costellate di altre opere di straordinario impatto. E risale fino agli anni dell’esordio.

Con tre siparietti davvero imperdibili e illuminanti. Come la intrigante galleria di manifesti per il sindacato. Come lo straordinario campionario di ritratti e autoritratti. Capolavori indimenticabili. Mai visto nessun altro pittore della scena contemporanea penetrare così a fondo i segreti di un volto: l’enigmatica voglia di vivere celata dietro l’impassibile maschera cieca di Borges, il calvario di sofferenza di papa Woytila, la leggerezza sorniona di Proust, il destino di perdente inciso come una condanna sui tratti stravolti dalla fatica del ciclista Pantani, l’amarezza, la solitudine, la rabbiosa tenacia con cui lo stesso Calabria immortala la sua figura di testimone allo specchio.

E infine, quasi una pausa di sollievo, la piccola stanza  dedicata ai pastelli che hanno scandito le sue vacanze al mare, in un angolo di Toscana che gli ha regalato forse le sue ore di tregua più belle. Ma anche qui in queste carte, prestate dalla sua compagna Tiziana Caroselli, spira, più lieve, lo stesso vento che ci ha investito all’ingresso. Colori morbidi, figure che trattengono il respiro delle onde, il mistero del mare, lo stupore di visioni venute su all’improvviso a prendere forma o a suggerirne altre nascoste. Presagi d’invisibile che preparano molti dei quadri accolti nelle altre stanze. E rendono ancora più imperdonabile la distrazione e la pigrizia saccente dei critici che hanno smesso di interessarsi alla pittura di Ennio Calabria e alla sua continua evoluzione di intellettuale.

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