Alessandro Macchi
Viaggio in Tibet/1

Ciclopi a Lhasa

Il paesaggio e la religione, il turismo e le montagne: un itinerario dentro al cuore di una civiltà più mitizzata che conosciuta davvero. Una terra da conoscere per non pensarla piena di contraddizioni

È l’anno 2007: con un volo di 3000 km da Shanghai a Lhasa raggiungiamo il Tibet. Siamo una piccola compagnia di ingegneri della Società Italiana Gallerie; alcuni con consorte, io sono solo. È un bel gruppetto: ci sono Lennart svedese con moglie etiope, Gianni con compagna cinese, la bella Shimin, entrambi amanti dei monti delle solitudini di quell’altipiano Tibetano dove si trovano le più alte e venerabili cime del mondo dagli 8847 m del Qomolangma, l’Everest, agli altri 8000. Gianni e Shimin con l’amico tibetano Tienzin saranno la nostra guida entusiasta e preziosa.

Il percorso di riflessione: Lhasa e i monasteri. L’alta zolla tibetana è il risultato di una quasi inimmaginabile migrazione di continenti con lo scudo dell’India che muove dall’Africa all’Asia e collide in un non ultimato movimento con lo scudo euroasiatico. La risalita isostatica del Tibet è la conseguenza tettonica di questo stupefacente incontro. L’altipiano (che attraverseremo con il nuovo treno per 2000 km) è un plateau intermontano tra cinture orogeniche.

Lhasa è a 3750m. ma ad una latitudine sul trentesimo parallelo come il Cairo. A settembre la quota delle nevi è a circa 5200 metri e l’infinità di guglie innevate che sorvoliamo sono alte 6000/7000m. All’aeroporto ci hanno accolto in un’aria luminosa, tonica e frizzante, mettendoci al collo l’hada, lunga fascia di seta (artificiale), dono tradizionale per favori celesti e felici contatti umani. L’hada è ovunque, al collo dei pellegrini, in grembo al Budda e alle altre divinità in ogni monastero, mi spiegano Shimin e Tienzin. Lhasa è a 40 km dall’aeroporto e la strada corre lungo le rive dello Yarlung Tsangpo il grande, lungo fiume che in India prende il nome di Brahmaputra, di romantica memoria salgariana.

L’altopiano tibetano è il più esteso del mondo con una altezza media di 4000 m ed influenza in maniera significativa le condizioni atmosferiche e climatiche di tutta l’Asia. Qui nascono tutti i principali fiumi asiatici, il Gange, il Brahmaputra, l’Indo, il Karnali che si dirigono nel subcontinente indiano, lo Yangtze, l’Huangpo il Mekong che scendono verso la Cina, il Myanmar (Birmania), l’Indocina: sono almeno dieci grandi fiumi che riforniscono d’acqua dolce quasi la metà della popolazione mondiale.

È pieno di fascino il grande fiume Yarlung Tsangpo, poi Brahmaputra, e guardiamo sulla carta geografica da che parte defluisce, chi dice in un verso chi all’opposto, ed in effetti abbiamo ragione tutti: nel suo percorso di 2900 km scende dall’altipiano puntando verso est, unico tra tutti, poi, per un accidente geologico (la “cattura” dei versanti di altri fiumi), cambia bruscamente direzione e torna indietro e passa in gole immense fin giù dove divaga e ha divagato nelle ere geologiche a creare il Bangladesh unendosi infine al Gange nel Golfo del Bengala.

La strada attraversa un bastione naturale con una galleria che ha ai due imbocchi un duplice portale, quello di contrasto sul versante e, poco più oltre, un secondo configurato ad arco trionfale. È la galleria di Kilarepong lunga 2,5 km costruita in 4 anni dai cinesi con metodi tradizionali a piena sezione in rocce antiche metamorfosate.

Lhasa è “la città della luce” e nella luce del tramonto spicca nella imponenza della sua mole il palazzo Potala. È un complesso di costruzioni ciclopiche, fortezze, muraglie, palazzi, che sono quasi un tutt’uno con uno scoglio di monte nobilitato dai volumi colorati delle costruzioni dove spiccano il Palazzo Bianco e il Palazzo Rosso con la sua facciata di 118 metri di altezza. Era la sede del potere temporale e spirituale del Dalai Lama oggi in esilio e il complesso è mantenuto vivo da una ridotta comunità monastica che gestisce la sacralità dei luoghi mentre la polizia cinese ha una funzione di sorveglianza.

L’albergo è in un quartiere ricco di botteghe di artigiani del ferro e dal terrazzo si gode la vista del Potala mentre tutta la città è un insieme piuttosto informe di costruzioni per lo più moderne tranne per poche isole dell’antico insediamento. Svetta il monastero Jokhang con le sue sfavillanti guglie d’oro e all’intorno l’ampio e vivo centro con i mercati: è il quartiere di Barkhor, l’unico rimasto pressoché integro.

Di fronte al lussuoso Hotel c’è un ampio edificio che alla sera si anima di vita notturna e di musiche. Una schiera di una trentina di fanciulle cinesi alte e in abiti per lo più rossi ricamati con draghi gialli che le fasciano fino ai piedi, accolgono i clienti che spesso arrivano con limousine scure. In quattro ci avviciniamo e siamo allontanati da quattro massicci gorilla cinesi che ci attorniano con facce minacciose.

A Lhasa c’è una divisione di militari cinesi che occupano e sorvegliano ogni attività.

Il nome della città è composto da Lha che significa Dio e Sha terra e quindi la “Terra degli Dei” e tale è stata per secoli con migliaia di monaci e di pellegrini. Oggi i monaci sono mezzo migliaio mentre sono sorti numerosissimi bordelli i cui clienti principali sono i soldati cinesi e i turisti di varie nazionalità.

Anche qui i cinesi non rinunciano alla ginnastica salutare della mattina e della sera e al tramonto vediamo tutto il personale dell’”entertainment” di fronte all’albergo che fa ginnastica e possiamo ammirare le numerose fanciulle della notte in barba ai gorilla!

Siamo di fronte al monastero di Jokhang, il più sacro. Pellegrini, profumi, odori, suoni, elementi architettonici di pietra, di legno, le ricchezze degli ori e dei colori ci immergono nel clima dell’immaginario, assetato di esotismo e di meraviglioso. Edificato nel 650, racchiude la famosa statua del Buddha, il Jowo, portata dalla principessa cinese Wenchen, sposa del re Songtsen Gampo che, per ragion di stato, aveva pure una moglie nepalese. È bello seguire i percorsi con amici del luogo colti ed entusiasti: sembra che vogliano travasare in te parte del loro spirito, del loro respiro.

Nel VII secolo i re tibetani unificarono il Paese e adottarono il buddismo indiano come religione di Stato. Gli zoccoli dei loro cavalli e la ferocia dei loro eserciti facevano spesso tremare le corti della Cina, costringendo talvolta gli imperatori a dare una principessa in sposa ai re tibetani per placare la loro sete di conquista e la foga dei loro guerrieri.

A quella prima dinastia seguirono l’epoca caratterizzata dallo sviluppo del monachesimo, quella delle invasioni mongole e infine quella dei Dalai-Lama, capi spirituali e temporali del Tibet fino ai giorni nostri. Nel 1959, in seguito all’invasione cinese, il XIV Dalai-Lama, Tenzin Gyatso, preferì l’esilio all’umiliazione.

Sulla spianata del monastero si accalcano pellegrini, commercianti, militari, turisti.

In grandi forni bruciano le offerte di ginepro e incenso. Un pilastro in pietra più grande reca le iscrizioni in cinese e in tibetano che sigillarono il trattato di non aggressione reciproco tra la Cina e il Tibet nell’821. Su un pilastro più piccolo sono descritte le precauzioni da prendere contro il vaiolo. Intere generazioni di pellegrini analfabeti, avendo sentito parlare della virtù del pilastro, ne hanno prelevato piccoli frammenti da portare nei loro villaggi come prezioso antidoto: le mie guide sorridono ma sembra che, scavando nel loro antico nemmeno tanto lontano, ritrovino vivo lo spirito di questi pellegrini. Vediamo uomini e donne di tutte le età prostrarsi a terra con le ginocchia su un tappeto e, con nelle mani pattini unti di burro di yak, fare come delle flessioni quasi ginniche avanti e indietro per decine e decine di volte mormorando invocazioni e preghiere.

In tutti i monasteri e palazzi è difficile cercare una percezione condivisa con il nostro senso delle arti figurative così come è rischioso cercare l’avvicinamento al sentimento religioso – morale espresso nella ricchezza delle manifestazioni delle persone e dall’estetica degli oggetti e degli ornamenti: ne discuto vivamente ma gli amici delle altitudini ammettono e non ammettono le mie convinte argomentazioni e a mia volta cerco, come spesso mi è già capitato, di portare esempi tratti dalla nostra estetica che si rifà al mondo greco romano.

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Dall’estetica ai contenuti di fede. Il buddismo ha numerose ramificazioni che si riconoscono tutte nel Buddha (l’illuminato o il risvegliato), alias Siddharta Gantama, principe nepalese (560-480 A.C.). Il nucleo originario della sua dottrina afferma che l’uomo è sottoposto a un ciclo perpetuo di reincarnazioni (samsara), ma può cercare di migliorare il suo karma, cioè prepararsi a una rinascita più favorevole, compiendo buone azioni. Il massimo traguardo è uscire dal ciclo incessante delle reincarnazioni, comunque pieno di sofferenze, tendendo al nirvana, uno stato di consapevolezza superiore. Per accedervi, bisogna portare a termine un percorso spirituale basato su quattro “nobili verità”:

  • l’esistenza è segnata dalla sofferenza
  • la sofferenza è provocata dall’ignoranza e dal desiderio
  • la vittoria sul desiderio permette di eliminare la sofferenza
  • la via delle otto tappe (o sentiero ottuplo) è quella che conduce allo stato di nirvana. Le otto tappe si possono raggruppare in tre campi: la pietà, la meditazione e la rinuncia.

La dottrina originaria è chiamata Theravada o Hinayana, cioè “piccolo veicolo”, in cui solo i monaci possono raggiungere il nirvana. Il Theravada si è consolidato in Myanmar (Birmania), in Thailandia e in Cambogia. Successivamente, tra il II secolo A.C. e il I secolo D.C., si è sviluppata la dottrina Mahayana o “grande veicolo”. Essa apre l’accesso del nirvana a tutti gli uomini introducendo i concetti di grazia divina e di rivelazione ed è dotata anche di una dimensione profondamente altruistica: quando il buddista ha raggiunto lo stato di bidhisattva (essere risvegliato), continua a vivere e ritorna sulla terra per trasmettere agli altri, che continuano a soffrire, il merito accumulato nelle sue numerose vite compiendo un atto di bontà e di pietà. Sono sinceramente affascinato e coinvolto.

La dottrina Mahayana si è diffusa nel nord, Tibet, India settentrionale, Nepal, Mongolia, Cina, Corea e Giappone, oltre che in Indonesia e Vietnam.

In Tibet la dottrina si trasformò, sotto l’influenza del tantrismo Indù, dando origine ad un “terzo veicolo”, il Vajrayana, che si basa su una tradizione esoterica, un culto preciso e un gran numero di bodhisattva, budda viventi, reincarnazioni (tulku) di una maestro spirituale defunto. Questa molteplicità di scuole e di capi spirituali ha conferito al Tibet un carattere unico tra tutti i Paesi che hanno abbracciato il buddismo.

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Il Jowo è una statua del Buddha nella sua forma gloriosa e si trova nel tempio principale del monastero. Poter contemplare questa statua almeno una volta nella vita è il desiderio più grande di ogni tibetano, che così è sicuro di reincarnarsi in uno stato superiore. È per rendere omaggio al Jowo che tutti quei pellegrini impellicciati, le donne dalle 108 trecce, i nomadi e i vegliardi emaciati intraprendono il pellegrinaggio alla capitale con fede intensa.

Commoventi sono i pellegrini che si accalcano entrando nel tempio con aspetto assorto e con spesso un frutto in mano da deporre nei luoghi sacri. A lato dei pellegrini e mescolati con loro la colonna dei turisti, almeno di pari numero, si fa largo con scarso rispetto: mi sento pervaso da un certo senso di vergogna che mi intimidisce.

Brucia in grandi, belle vasche di pietra il burro di yak, il grande bovino tibetano, e il burro, portato dai fedeli, rischiara, riscalda, illumina e spande un profumo acre dappertutto.

Con scalini dalla pedata strettissima, 10-12 cm, e alzata anche di 25 si sale (e si scende!) perigliosamente con l’aiuto di mancorrenti nerastri di burro e unto fino alla spettacolare terrazza del tempio da cui in un magico sole brillano decori e pinnacoli e stendardi dai mille colori e significati e spicca la “ruota della legge” tutta d’oro tra due antilopi anch’esse d‘oro; di fronte si staglia la mole del Potala e di alte montagne. Sono pienamente affascinato e anche gli amici sono felici.

Il tempio, dopo un periodo di degrado per l’abisso della rivoluzione culturale (wenhua dagemin), è stato restaurato con perizia e brillano di nuovo ori e colori.

Attorno al monastero sorge il quartiere di Barkhor cioè dell’Ottagono, espressione urbanistica delle “otto tappe”: i pellegrini e i turisti affollano l’ampio pittoresco bazar. I giovani volti delle ragazze e soprattutto dei bambini sono molto belli nel loro color bronzo, è un bello sano con i riflessi della montagna e dell’aria dei campi semplice e buona. Molti hanno i costumi tradizionali ricchissimi e vivaci. Giovani monaci si intrattengono nei loro vestiti rossi con risvolti gialli e con uno strano copricapo stile il nostro cappello da studente universitario. Molte persone hanno in mano il rullo di preghiera che fanno girare velocemente.

Compriamo tante cose intrattenuti dai venditori con cui si contratta dal doppio alla metà dei prezzi e tutti facciamo affari: una sorridente fanciulla mi fa provare occhiali da alta quota con vetri scuri anche laterali inseriti in pelle di yak come pure di yak è la bellissima custodia. Mi stanno benissimo e mi sembra di essere un grande scalatore come suggerisce a gesti e con sorrisi la giovane, tonica venditrice dalle guance rosse e dai lunghi occhi neri dal fascino esotico.

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Per una intiera giornata dalle 7 del mattino alle 9 di sera abbiamo percorso l’altipiano su strade in buona parte sterrate seguendo per lunghe tratte il corso dello Yarlung Tzangpo: è una giornata intensa. Il paesaggio è inaspettato. È sostanzialmente un deserto d’alta quota con dune alte fino a un centinaio di metri di un sabbione di disfacimento della fragile roccia per effetto del gelo e del disgelo, il permafrost dell’inverno e, nelle altre stagioni, il gelo di notte e nei temporali ventosi, il caldo al sole. I colori sono ocra con grandi venature rosse. È un sole che scotta dove batte mentre, dove c’è l’ombra, nello stesso momento si gela.

Attraversiamo villaggi dove la vita si svolge con ritmi antichi: carri trainati da buoi o da altri grandi animali, incrocio tra un bovino e uno yak. Profili di montagne senza neve e senza alberi, il fiume che scorre ora molto lento quasi lago o palude, ora veloce e ondoso con acqua densa di limo quasi fango mobile, specchi improvvisi di luce. In questo paesaggio le case sono rettangoli di mura di pietra con quattro torrette agli angoli: il muro, e quindi le porte e il tetto, sono gli elementi fondamentali dell’architettura (anche delle città e dei giardini) e sono il vero prospetto della casa tutta rivolta all’interno. Le porte d’ingresso hanno l’architrave in legno intagliato in più fregi quasi sempre colorati, rosso, molto blu, bianco, riquadri neri, e questi stessi colori contornano le poche finestre. Ne visitiamo una accolti da tre generazioni. La nonna, considerata una vegliarda (ha 3 anni meno di me !), ci prepara pezzi di formaggio, biscottini, yogurt di yak e il sorridente Tienzin mi fa assaggiare tutto, è buono ! C’è un cortiletto orto con uno specchio parabolico che incentra i raggi su un grande bricco che bolle sempre, da qui si entra in una stanza circondata da divani, living di giorno, letti per 7-8 persone di notte, in un’ altra stanzetta ci sono dei cassettoni e l’altare con le effigi religiose e quella proibita del Dalai Lama. Fuori i localini con la buca del “cesuò” e, più in là, col lavatoio.

Dopo un guado e una lunga salita arriviamo al passo di Junlong-Lai a 4000 m. Tra le rocce sono intrecciate le “bandiere di preghiera” affidate al vento. Sono funi, pennoni, aste che compaiono ovunque nel paesaggio nei punti più in vista e sui templi o vicino alle case, a cui sono legati pezzi di stoffa dei quattro colori bianco, giallo, rosso e verde che simboleggiano le quattro direzioni dell’universo e valgono come riflessioni religiose, invocazioni, espressione di desideri e augurio di buona sorte.

Siamo fermi a guardare il paesaggio e sopraggiunge un pullman di pellegrini tibetani di ritorno dal monastero di Samye, dove siamo diretti, a 180 km da Lhasa. Con risa divertite gettano sui pietroni del passo una nuvola di fogliettini colorati. Ne raccolgo uno, ma non si può, c’è scritto un desiderio da affidare al vento. Ma c’è anche un’altro modo per esprimere i desideri: mettere una pietra su uno dei tanti muretti innalzati via via dai fedeli e anch’io ne metto una e cosi i miei “sagrin” li ho lasciati lì a volare via nel vento e proseguo più sereno.

È bello che per Buddha il desiderio sia una entità percepibile e quindi apprezzabile. Lo dico convinto a Tienzin, lui sorride, contento.

Il complesso monastico di Samye, costruito nell’VIII secolo dal re Trisong Detsen sul modello di un mandala, simboleggia l’ordine cosmico proprio del buddismo in Tibet. I mandala sono rappresentazioni simboliche del cosmo: un cerchio definisce la totalità del creato con inscritti all’interno altri simboli che sono le figure del mondo interiore incentrate in un punto, il centro di noi stessi. Si trovano ovunque in Tibet in mille rappresentazioni, dall’impianto architettonico di un intero complesso, ai decori, agli stendardi.

Dal monastero si vede, in alto, il monte Meru che è la dimora celeste degli dei, ai piedi compaiono i resti del grande complesso-mandala distrutto dai cinesi, che un tempo comprendeva 108 templi e santuari. Si vedono i ruderi dell’originaria cinta muraria circolare, dove al centro sorgeva il tempio principale che corrisponde al centro dell’Universo, attorno, quattro templi, simboleggiavano nelle quattro direzioni i quattro continenti, ciascuno affiancato da due subcontinenti; due templi di fronte rappresentavano il sole e la luna. Quattro stupa ai quattro angoli del tempio principale, dono dei quattro ministri del re, completano (ancora oggi) la geometria celeste del complesso.

La grande costruzione del monastero è notevole per la struttura lignea che è peraltro un tipo architettonico ripetitivo nelle strutture monastiche e monumentali. L’intreccio di travi, mensole, sbalzi richiede un notevole impegno per congruenza di equilibri e deformazioni. È un complesso strutturale tridimensionale che per certi versi mi sembrerà non molto distante concettualmente dal “nido” della struttura dello Stadio Olimpico di Pechino.

Mangiamo nel refettorio dei pellegrini ma il problema grave è quello del “cesuò”! È una incredibile buca con resti e oggetti umani e odori che nemmeno nella mia esperienza “cesuica” di 35 anni fa nel mio primo viaggio nella Cina di Mao, ha un riscontro cosi ripugnante. Ovvieremo al problema con la tecnica antica dell’uso dei campi e, vista la nostra qualifica di galleristi, ritroveremo molto comodo il prezioso riparo del portale monumentale della galleria di Kilarepong !

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Sulla strada del ritorno da Samye, facciamo una deviazione per Mindroling, il monastero il cui restauro è stato ultimato rispettando la tradizione dei muri in pietre a secco. Era sede della scuola di filosofia e di medicina, il più grande centro Nyingmapa del Tibet.

I chiostri sono fascinosi di colori e armonie di proporzioni.

A Samye non c’era nessun turista perché è piuttosto disagevole raggiungerlo anche se ora c’è un ponte sul fiume mentre pochi anni fa c’era un traghetto con un (suggestivo) natante a fondo piatto in pelle di Yak e lo stesso vale a Mindroling, perché il monastero è fuori di mano su una strada che è un tratturo e sale preservando i luoghi dai turisti con pullman grandi. Ci porta Gianni che ama quei monti dove appena può si ritira a parlare coi monaci in romitori su, in alto.

Il complesso del monastero è suggestivo e il villaggio al piede del monte, rannicchiato in una fertile vallata, è stupendo per gli sguardi degli abitanti in costume, le masserizie, i carri, i covoni, gli animali.

Nei monasteri tutte le raffigurazioni seguono un percorso difficile da comprendere e di primo acchito ogni tempio sembra un affastellamento di statue in posizioni o atteggiamenti sorprendenti, così come gli arredi che coprono con stoffe rosse o comunque vividamente colorate qualsiasi elemento di struttura. A sinistra e a destra del Buddha storico, Sakyamuni, si trovano il Buddha del passato, Dipamkara, e il Buddha del futuro, Maitreya: le manifestazioni del Buddha si riconoscono dalla corona che rappresenta le cinque saggezze del risveglio.

Le altre statue, da decine fino al centinaio, sono simili al Buddha, e sono poste tutte in fila o su più file come su gradinate di un teatro. A noi sembrano tutte uguali e sorprendono il nostro senso estetico e mettono a dura prova le nostre capacità interpretative: ci dicono che rappresentano i maestri spirituali e di saggezza. Si, interessante, dico io, ma non mi convincono tante facce che mi sembrano inclementi fino all’asprezza. Ci sono poi statue di divinità protettrici generalmente rappresentate con un’espressione corrucciata e ancora severa: sono antiche divinità locali assimilate nel buddismo e in ogni monastero esse hanno una cappella a loro dedicata, il gonkhang.

La giornata è stata lunga, l’animo è pieno di natura primigenia e di novità estetiche e spirituali, riprenderemo il viaggio nei giorni seguenti.

Fine prima parte. Segue.

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