Danilo Maestosi
Al Museo del Vittoriano di Roma

Pollock e il caos

Accanto a Rothko, De Kooning e tutti gli altri, una grande mostra rende omaggio alla "scuola di New York”, il gruppo eterogeneo guidato da Jackson Pollock (che però qui appare con una sola tela...)

Il Whitney museum porta in trasferta nella sale del Vittoriano di Roma un ricca antologia di autori americani protagonisti della rivoluzionaria stagione dell’informale che, a cavallo degli anni Cinquanta, spostò Oltroceano il baricentro del sistema dell’arte. Jackson Pollock e la scuola di New York è il titolo della mostra che resterà in cartellone fino al 24 febbraio. Un titolo civetta che usa come richiamo il nome di Pollock (1912-1956), capofila dell’action painting, sicuramente l’artista più noto e rappresentativo di quella generazione. Ma poi tradisce in gran parte le attese con un repertorio di opere troppo magro per documentarne il tragitto creativo: due dipinti di gestazione degli Anni Trenta che evocano la sua fascinazione per la magica iconografia dell’arte indiana, due grandi carte datate 1950 con graffiti e colature in bianco e nero che esemplificano con grande evidenza il suo approccio gestuale alla pittura; un fascinoso quadretto dello stesso anno che incide su un inusuale fondo nero le traiettorie di uno spettacolo di fuochi d’artificio, e infine una grande tela, datata ancora 1950, esibita come il punto più alto della sua produzione.

A compensare questo vuoto vistoso, i curatori hanno costruito un calibrato siparietto di contorno con le foto e un filmato che ritraggono l’autore in azione nel suo studio fuori Manhattan. C’è anche, lungo il percorso, un divanetto dove il visitatore è invitato a sdraiarsi per osservare le immagini che scorrono su uno schermo che fa da soffitto. E poi metterle a raffronto con le opere alle pareti, di cui il video registra la gestazione. Una presa di distanza da seduta psicoanalitica più che intonata a quel rovesciare il caos del proprio inconscio sulla tela che è caratteristico dell’action painting.

A me, quel lettino da analista ha suggerito due riflessioni, che provo a condividere, rimbalzando con lo sguardo tra le immagini di corredo in movimento e il risultato fissato dal quadro: quella enorme tela di un metro e mezzo per 2 metri e 69, battezzata solo da un numero: 27. Tela scelta come copertina per il catalogo e manifesto locandina per la mostra. È un labirinto di segni e tracciati sovrapposti che, osservato a distanza, può ricordare la mappa di una città: strade che si intersecano, viadotti, curve che sembrano anse accennate di un fiume. Nessun apparente riferimento reale, comunque. Piuttosto la sensazione di un caos addormentato in una sorta di curioso letargo di perfezione da una serie di tonalità dominanti, distaccate e brumose. In mostra e negli scritti in catalogo il quadro ha il posto che si assegna a un capolavoro. Perché allora a me arriva invece come un lavoro debole che mal rappresenta l’autore? Una delusione doppia perché ammiro Pollock; da pittore sono affascinato dal suo modo di fare pittura, e mi trascino dietro il metro di paragone di altre sue opere di grande impatto che ricordo di aver visto alla Guggenheim di Venezia e in altri musei. Che cosa mi disturba? Che cosa mi sembra sbagliato. Dopo aver a lungo fissato il quadro, volto lo sguardo al video che ne registra la gestazione e credo di trovare una risposta. Nel filmato, vedo Pollock intingere il pennello in un barattolo di lacca nera e poi tracciare segni e colature sul bianco della tela, ferite che parlano. Nel quadro, quel tracciato di colore così sfuggente e imperioso è scomparso. Sommerso da altri segni e colori sovrapposti: macchie bianche, linee di un grigio metallico, chiazze e sbavature di giallo. Il quadro si è spento, non emana più la vertigine della profondità.

La prima sensazione è che Pollock si sia lasciato dominare dall’impulso di annullare lo spazio, il ring del suo costante corpo a corpo con se stesso accennato dai primi segni, le prime colature, abbandonandosi al piacere di una tessitura fitta e aggrovigliata. Un ricamo sovraffollato e sfocato che mi ricorda quello esposto quasi accanto, dovuto alla mano di sua moglie Lee Krasner, complice musa e manager che ha rinunciato alla propria carriera per gestire e tenere a bada finché ha potuto il suo disordine e il suo istinto di autodistruzione sigillato dall’incidente che gli è costato la vita ma lo ha consegnato alla leggenda.

La sensazione respingente è che Pollock abbia finito, in questa e altre opere analoghe, per chiudersi in una sorta di prigione patinata e gradevole. Annullando quel senso di libertà, di istinto biologico da cui stava nascendo il dipinto. Quasi un sofferto paradosso, per un profeta come lui dell’abbandono agli impulsi ed al caso. E che poi, costruita la gabbia, abbia gettato via le chiavi. L’opera ha perso forza, si è afflosciata su se stessa. So che il mio è un giudizio personale. Ma so pure che Pollock ha dipinto altri quadri che continuano a sprigionare forza, ubriacanti possibilità anche oggi. Magari è stato proprio quel suo rifiuto a spingersi oltre sulla rotta del proprio inconscio, quella fuga verso la maniera, a scatenare quel ritorno all’alcoolismo, quella smania d’insoddisfazione e autodistruzione,  che ha caratterizzato i suoi ultimi anni. Un quadro sbagliato? Succede. Anche ai geni e ai talenti più autentici. Le quotazioni di mercato non hanno sempre sguardi esigenti.

E invece noi, spettatori e visitatori, questo approccio di sintonie e dissonanze più diretto ed emotivo dovremmo conservarlo e imparare a tararlo con approfondimento e conoscenza. A che serve vedere una mostra, misurarci con l’invisibile che altri hanno scovato per noi, se a guidarci è solo ruolo passivo di riconoscere il già noto, certificare quel che crediamo già di sapere?

Questo metro di riconquistata, forse illusoria, padronanza può essere davvero il filo d’Arianna per gustare qui al Vittoriano il piacere di attraversare settant’anni dopo il labirinto di tendenze e di stili dei tanti autori chiamati in passerella, spesso così diversi tra loro. Accomunati sotto un’etichetta di scuola di New York da un solo denominatore, quello di vivere la stagione di fermenti del dopoguerra senza il peso delle ideologie e della tradizione in un’America in pieno boom e in una città, Manhattan, che ne interpretava le ambizioni di protagonismo culturale. E da una sola vocazione comune: quella per l’arte astratta che l’Europa sembrava aver incanalato su un binario morto.

E in più una voglia di esserci e di essere visti, che si trasforma in rabbia e protesta. Eccone una ventina in posa, giacca e cravatta, mento sporgente, neanche un sorriso, dopo aver firmato insieme un manifesto per denunciare gli anacronistici tagliafuori che il direttore del Metropolitan riservava agli artisti americani del suo tempo. Data, 1950. Una foto e una didascalia, gli Irascibili, che ne fa, a torto o a ragione, una comunità e una leggenda: la scuola di New York per l’appunto. Una scuola senza maestri e allievi. Ognuno un suo percorso di biografia e creazione. Tra quelli che più ricordano la gestualità di Pollock spiccano i nomi di Franz Kline (1910-1962) e Willem De Kooning (1904-1997), olandese trapiantato negli Usa nel 1920, un emigrato come Arshile Gorky (1902-1948), un armeno fuggito al genocidio, come Hans Hoffmann (1880-1966).

A differenza di Pollock sia Kline che De Kooning non si lasciano dominare dall’horror vacui e dialogano con lo spazio, il bianco vuoto della tela o del foglio. Le pennellate di entrambi sono più nette e concise, si interrompono per suggerire una trama di ombre, graffi, ragnatele di segni più minuti che rivendicano comunque una gerarchia di lettura. Ma nel gruppo c’è posto anche per un calligrafo dell’astrazione come Mark Tobey (1890-1976), per chi si abbandona al piacere del colore e dei contrasti cromatici come Sam Francis (1923-1994), chi si trascina appresso echi del cubismo come Robert Motherwell (1915-1991), chi, William Baziotes (1912-1963), si affida alla suggestione di forme incise nello spazio come ritagli di carta. Una carrellata di diversità che si chiude con un sintetico omaggio al più diverso di tutti: Markus Rothkowitz, nome d’arte Mark Rothko (1903-1970), emigrato dalla Lettonia, la pittura come pura ascesi, una poetica modulazione di colori e sfumature compenetrati. Una pausa dell’anima la sosta davanti alle due tele sulle tonalità dell’arancio e del grigio, partorite negli stessi anni , ma lontane secoli o frazioni di secondo incalcolabili dalla frenesia dei suoi compagni di strada newyorchesi.

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