Raoul Precht
Periscopio (globale)

I poeti di guerra

Ernst Stadler, Charles Péguy e Wilfred Owen: tre scrittori dimenticati che segnarono la stagione della Prima Guerra Mondiale e che andrebbero riletti. Per riallacciare il filo (interrotto) della storia

Anche in letteratura, come nella vita, di solito si cerca di uccidere i padri e per converso ci si rivolge a nonni e bisnonni per ricavarne un modello o anche solo un punto di riferimento. Ci sono però nonni o bisnonni che le vicissitudini storiche ci impediscono d’incontrare e sotto questo profilo il Novecento, con il suo carico di guerre, distruzioni e persecuzioni, è particolarmente prodigo di casi eclatanti.

Prendiamo ad esempio Ernst Stadler (nella foto), importante poeta espressionista alsaziano di lingua tedesca. Nato a Colmar nel 1883, figlio di uno degli amministratori dell’Università di Strasburgo, dove studia germanistica, filologia romanza e letteratura comparata, entra ben presto in contatto con l’élite poetica locale, formando con René Schickele e Otto Flake il gruppo Das Jüngste Elsass e fondando l’effimera rivista “Der Stürmer”, che sia pur con qualche ingenuità voleva raggiungere una sintesi fra cultura tedesca e cultura francese, nel segno di una rinascita generale delle lettere europee. Impresa di grande coraggio, ma votata inevitabilmente al fallimento, vista la temperie di quegli anni. Nel 1904 pubblica il primo volume di versi, Präludien (Preludi), di stampo simbolista e fin-de-siècle, e due anni dopo si laurea con una tesi sul Parzival di Wolfram von Eschenbach; ottiene poi una borsa di studio per il Magdalen College di Oxford e in seguito l’abilitazione, con una nuova tesi incentrata stavolta sulle traduzioni shakespeariane di Wieland. Nel 1910 è professore all’ULB, l’Università Libera di Bruxelles; diventa intimo amico di Carl e Thea Sternheim, di cui frequenta assiduamente la casa d’Ixelles. Alla fine del 1913 pubblica un secondo e più maturo libro di poesie, Der Aufbruch (La partenza), con cui si avvicina alla poetica dei massimi espressionisti tedeschi, Heym e Trakl, e l’anno successivo è nominato professore di germanistica a Toronto.

Cambiamo fronte. Il poeta francese Charles Péguy (nella foto) in Italia è forse più conosciuto. Nato dieci anni prima, nel 1873, a Orléans, non riesce a conoscere il padre, che muore quando Charles ha pochi mesi. Allievo di Rolland e Bergson all’École Normale Supérieure di Parigi, a ventiquattro anni pubblica Jeanne d’Arc, dedicato a coloro che si sono immolati per la rivoluzione sociale; accanto a Jaurés, sarà uno degli intellettuali francesi che prenderanno con maggior decisione le difese del colonnello Dreyfus. Nel 1900 fonda la rivista “Cahiers de la quinzaine”, che avrà – caso raro – una lunga vita e nella quale pubblicherà articoli e interventi per ben quattordici anni, ospitando anche scritti di Benda e Rolland. Nel 1907 si converte al cattolicesimo; negli anni successivi, pubblicando Le mystère de la charité de Jeanne d’Arc, Notre jeunesse e L’argent, prende le distanze dal pacifismo della gioventù e plaude al riarmo e all’entrata in guerra purché questa sia “giusta”.

Wilfred Owen (nella foto), infine, è uno dei poeti inglesi più significativi dei primi anni del Novecento ed è anche il più giovane dei tre, essendo nato nel 1893. Riceve un’educazione tradizionale, di stampo anglicano; pensa dapprima di abbracciare una carriera ecclesiastica, poi però si appassiona ai romantici, primi fra tutti John Keats e Walter Scott. Nel 1913 lavora alla scuola Berlitz di Bordeaux come precettore e insegnante d’inglese; in seguito decide di tornare in Inghilterra, e durante i suoi soggiorni a Londra sarà un regolare frequentatore del Poetry Bookshop, diventando poi amico di Siegfried Sassoon e di Edith Sitwell, per l’antologia della quale, Wheels, nel 1918 prepara una selezione delle sue poesie.

Il lettore avrà notato che in queste brevi note biografiche mi sono arrestato nei primi due casi al 1914 e nel terzo al 1918. Non è un caso. I poeti di cui parlo hanno infatti qualcosa in comune, che ne trascende la poetica: sono solo alcuni degli intellettuali falciati nel fiore degli anni dalla Grande guerra, i nostri nonni o bisnonni in poesia nei quali ci saremmo potuti imbattere se avessero avuto una vita “normale” e che invece non conosceremo mai. Qualche altro nome sui diversi fronti: il già citato Georg Trakl, Alfred Lichtenstein, Peter Baum, August Stramm, Gyóni Géza, Isaac Rosenberg, Charles Sorley, Rupert Brooke, il nostro Carlo Stuparich e naturalmente, in modo più indiretto, Apollinaire. Come scrisse Anna Achmatova a proposito dell’entrata in guerra, in un’ora l’Europa invecchiò di un secolo.

Riprendo il filo. Dovendo partire in settembre per Toronto, Stadler decide d’impartire un corso estivo all’Università di Strasburgo nel giugno-luglio del 1914, anche al fine di salutare gli amici. Durante una gita a Parigi una veggente gli predice che quel viaggio oltreoceano non si farà mai e che lui non sopravvivrà a una guerra. Al momento della predizione, sia detto per inciso, la guerra non era stata ancora dichiarata. Quando ciò avviene, il 31 luglio, Stadler è costretto a raggiungere subito il reggimento al quale è destinato. Appena tre mesi dopo, il 30 ottobre, durante uno dei primi scontri della battaglia delle Fiandre, muore nei pressi di Ypres. Quanto a Péguy, se ne va ancora prima: il 2 agosto è mobilitato come tenente di riserva in fanteria e parte entusiasta per la missione civilizzatrice. Un mese dopo, il 5 settembre, è fra i caduti della battaglia della Marna, durante la quale più di mezzo milione di soldati di entrambe le parti è ucciso, ferito o fatto prigioniero. Neanche a farlo apposta, quelle in cui moriranno Stadler e Péguy sono appunto le due battaglie che le opposte propagande trasformeranno in avventure mitiche, per rinsaldare il morale delle truppe e trovare una giustificazione alla carneficina. “Heureux ceux qui sont morts dans une juste guerre…” scriveva Péguy nel 1913 nella poesia Ève (Eva), e Stadler rispondeva in Der Aufbruch (La partenza) con le parole “Und herrlichste Musik der Erde hieβ uns Kugelregen.” (“E musica sublime era per noi il fischio del proiettile.”) Inevitabile pensare che la morte al fronte, proprio all’inizio della Grande guerra, di questi soldati del tutto particolari, teste pensanti e anime sensibili delle diverse nazioni, servirà a legittimare l’incessante e martellante propaganda dei vari ministeri della guerra, trasformando lo scontro bellico in un conflitto di civiltà.

Anche Owen, al pari di Péguy, parte per la guerra con spirito romantico, convinto, come molti altri giovani europei dell’epoca, di poter contribuire a sventare la minaccia rappresentata dal nemico (in questo caso, i tedeschi), ma anche di potervi trovare quei valori estetici e poetici che la pace aveva banalizzato e cancellato. Inabile alla leva, nell’ottobre del 1915 si arruola lo stesso, nel battaglione di volontari dell’Artists’ Rifles, e partecipa alla battaglia della Somma, restando intrappolato in una buca per tre giorni; a seguito di uno choc post-traumatico per l’esplosione di una granata e di un lungo soggiorno in un ospedale psichiatrico militare sarà poi dichiarato inadatto al combattimento. Nel 1917, in pochi mesi, seguendo il consiglio dell’amico Siegfried Sassoon, incontrato appunto in ospedale, dove curano insieme la rivista “The Hydra”, scrive la quasi totalità dei suoi versi, incentrati sull’esperienza bellica. Il 10 agosto del 1918, dovendo arrestare in qualche modo la controffensiva tedesca, l’alto comando militare decide di far ricorso a tutti i soldati disponibili e di rimandare anche Owen al fronte, da dove non tornerà mai. Muore infatti nel nord della Francia, presso Ors, mentre cercava di attraversare un canale, il 4 novembre 1918, esattamente una settimana prima dell’armistizio. La madre, cui era molto legato – negli anni della guerra è destinataria di ben 664 lettere -, riceverà le due notizie nello stesso giorno: la notizia liberatoria della fine della guerra e quella funesta della morte di Wilfred.

Forse proprio perché il suo sacrificio avviene alla fine del conflitto, Owen è l’unico dei tre poeti qui ricordati a rendersi conto della falsità propagandistica e dello sperpero di un’intera generazione ad opera di una classe politica incapace e imbelle. In altre parole, è l’unico – perché le brutture della guerra in tre anni le ha vissute davvero tutte – a capire che non c’è niente da legittimare, che il detto oraziano Dulce et decorum est pro patria mori rappresenta una vecchia menzogna, utile solo a chi governa per mascherare la propria miopia e la propria incapacità. Ben diversa, in Dulce et decorum est come nelle altre sue poesie, è la realtà delle trincee; i soldati che la propaganda spaccia come invincibili sono piuttosto male in arnese: “Bent double, like old beggars under sacks, / Knock-kneed, coughing like hags, we cursed through sludge…” (“Piegati in due, come vecchi straccioni, sacco in spalla, / le ginocchia ricurve, tossendo come megere, imprecavamo nel fango…”.) O, in Beauty, “A shrapnel ball / Just where the wet skin glistened when he swam / Like a full-opened sea-anemone.” (“Una palla di shrapnel / proprio lì dove nuotando gli brillava l’umida pelle, / come l’aprirsi di un anemone marino.”) Siamo davvero lontani dalla poesia patriottica che un Rupert Brooke poteva scrivere solo pochi anni prima.

Perché Owen è poeta notevole e, malgrado qualche ingenuità giovanile, anche raffinato: lo si scopre in poesie come Anthem for Doomed Youth, dove riprende la tradizione petrarchesca coniugandola con uno schema di rime, assonanze e allitterazioni che rimanda al sonetto shakespeariano, contrapponendo le attività belliche e i tipi di morte che esse provocano (le due quartine) con il compianto proprio di un funerale (le due terzine), in cui la violenza incide ora sulle famiglie dei defunti, lasciate sole con la loro disperazione. Il ritmo delle due parti è attentamente calcolato, gli effetti retorici sono potenti e al contempo controllati. In Strange Meeting immagina una conversazione fra un soldato e il nemico che l’ha appena assassinato. In Insensibility mette a confronto due diverse forme d’insensibilità, appunto: quella del soldato al fronte, che dinanzi alla morte non prova più alcuna emozione, e quella del civile, che per i militari non prova alcuna compassione e anzi vorrebbe perpetuare la guerra per il proprio tornaconto. Non è sorprendente che negli anni Sessanta Benjamin Britten abbia voluto inserire alcuni dei suoi testi nel War Requiem composto per celebrare la ricostruzione della Cattedrale di Coventry distrutta durante la seconda guerra mondiale, quasi a sottolineare come le ferite lasciate da ogni guerra si assomiglino.

Non ho qui lo spazio per dilungarmi ulteriormente su questi tre poeti, ma vorrei indicare almeno le edizioni nella nostra lingua. Di Ernst Stadler si può utilmente leggere La partenza, :duepunti edizioni (traduzione di M. Pirro, di cui va segnalata l’accurata postfazione); delle opere di Charles Péguy si trovano diverse traduzioni, edite tra gli altri da Rizzoli, Jaca Book, Castelvecchi e Marietti; di Wilfred Owen, che io sappia, esiste solo un ormai introvabile volume, Poesie di guerra, a cura di S. Rufini, edito da Einaudi nel 1985. Non mi risultano altre edizioni italiane più recenti, ed è un vero peccato, considerato l’interesse che la sua poesia dovrebbe suscitare.

Dei tre, insomma, è forse il nonno (giovanissimo) che più m’incuriosisce.

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