Danilo Maestosi
Il nuovo corso dell'arte a Roma

Macro senza museo

Apre il Macro targato Giorgio de Finis. Quasi una festa popolare nella quale la provocazione si mescola all'approssimazione. Davvero ha senso un "museo" che abdica alla propria memoria?

Ottomila persone, forse più. Un bagno di folla ha battezzato l’avvio del Macro Asilo, il museo d’arte contemporanea di Roma Capitale in via Nizza rimesso in moto e rimodellato da Giorgio de Finis come centro di riflessione e confronto aperto a tutti. Ed è sicuramente una partenza incoraggiante, che in qualche visitatore over sessanta ha risvegliato il ricordo della prima estate romana di Renato Nicolini. Anche qui come allora, la stessa miscela di cultura alta e bassa a far da richiamo, lo stesso tentativo di far convivere la festa e il laboratorio, chiamando la platea ad arricchire il copione, la città a rimpossessarsi di un luogo e abitudini consacrate alle élite.

Ma il confronto, suggestivo e arbitrario, si ferma qui. Un’altra Roma, quella di oltre quaranta anni fa. Altre periferie quelle che hanno risposto all’appello. Unificate alla fine di quegli Anni Settanta dal bisogno di rispondere al coprifuoco della paura e del terrorismo e da un progetto politico forte e ben disegnato dalle prime giunte rosse. Una Roma da vivere e far vivere insieme e non solo un museo da strappare come rifugio: oggi uno dei progetti più stimolanti messi in campo da de Finis in collaborazione col gruppo Stalker, è invece declinato al plurale: Rome. Un tentativo di restituire ribalta alle tante voci del territorio, romperne l’isolamento, la difficoltà a dialogare e trovare sponde.

E poi, a sparigliare tutto c’è Internet. Una possibilità di mobilitazione che qui ha funzionato alla perfezione, consentendo subito alla festa del Macro-Asilo di assicurarsi la complicità indispensabile al decollo. In particolare dalla grande platea di artisti romani, che de Finis (nella foto) è stato abilissimo a conquistare, con un invito esplicito a ribellarsi al sistema che regola il mercato e le benemerenze del mercato dell’arte, rivolto senza apparenti distinzioni a firme già note ma dimenticate o tenute ai margini dai meccanismi di selezione del sistema, ma anche a un popolo indistinto di talenti in bilico e aspiranti ancora senza titolo. Adesioni che hanno preso corpo in un tifo quasi da stadio, sigillato in rete da commenti che non ammettono critiche o dubbi, lapidari a volte come linciaggi. E in una partecipazione mai vista, perché ad ingrossare le presenze alla festa erano soprattutto i rappresentanti di questo popolo di creativi. Tanta gente dunque. Divertita e bendisposta. Forse anche troppa. Per capire e distinguere quali dei congegni utilizzati per trasformare il vecchio Macro possa in futuro funzionare e quale no, quando l’affluenza assumerà ritmi e cifre più regolari.

Liberatorio ma equivoco ci è apparso quel banchetto all’ingresso, dove uno dei volontari coinvolti nell’evento stampigliava come in una balera un timbro d’ingresso sul polso dei visitatori indossando una maglietta con su scritto «Anche tu per un giorno puoi essere un artista», maglietta che poi trovavi in vendita al bookshop. Uno sdoganamento anarchico che ha generato il meglio e il peggio di questa manifestazione d’esordio. La scena più bella? Quei bambini che al primo piano si sono impossessati della gigantesca lavagna riservata agli incontri con gli artisti in cartellone per tutto l’anno, riempiendola con i loro disegni. Uno spettacolo e una lezione di straordinaria naturalezza.

L’episodio più fastidioso e irritante? Quello spettatore che su, all’ultimo piano, in una delle quattro stanze riservate ad atelier a rotazione per far esibire dal vivo una numero scelto di artisti di rango, si è impadronito dei colori e dei pennelli portati lì da Danilo Bucchi, che doveva presentarsi al lavoro il giorno dopo, per abbozzare su una tela un informe schizzo, dipinto come se. Molti hanno applaudito, pochi si sono accorti della sostituzione: forse per tener fede al proclama di quel ”liberi tutti” nel Macro mancano didascalie orientative, cartelli che annuncino il nome dell’artista all’opera. Su Facebook Danilo Bucchi ha scritto di non aver affatto gradito. Inconvenienti che capitano in un clima di festa. Sarebbe un problema dovessero ripetersi.

Lascia perplessi anche l’allestimento di quegli atelier mordi e fuggi: gli artisti sono isolati dal pubblico da una teca di vetro, il dialogo con chi li osserva è volutamente vietato. Neanche l’opera che produrranno resterà in vista. È una delle parole d’ordine del nuovo Macro: niente mostre, è il museo nuovo, l’artista al lavoro che si mostra. Come se l’opera d’arte finita fosse un messaggio deviante, non rispondesse a quello slogan copyright «arte viva» stampigliato sul programma. Tanto più che il proclama viene di fatto smentito più volte. Che cos’è, se non un’opera in mostra, quell’istallazione intitolata «Il Tappeto Volante», una moschea da preghiera realizzata con un intreccio di fili e di rame, che il gruppo Stalker presenta sul fondo della sala più grande. Tra l’altro, uno dei lavori più emozionanti e più belli, sintesi di un’esperienza esemplare e appassionante che il gruppo Stalker ha condotto insieme ai profughi curdi?

E cos’è quell’assemblaggio di tele grandi firme che è stato montato su un’intera parete delle stessa sala, e che il pubblico sembra molto apprezzare? Possibile che si voglia ridurre quei lavori, alcuni veri capolavori, solo a mera citazione dei tesori di collezione che il Macro conserva in magazzino? Sembrerebbe di sì, visto che neanche una didascalia, una mappa con la posizione ed i nomi, accompagna quella passerella di dipinti, trasformandola in un apparato esclusivamente decorativo.

Sottratta alla memoria di se stessa l’arte può davvero aspirare a una nuova sopravvivenza fuori schema ? è davvero l’unico modo per distinguere il mondo dell’arte dal sistema dell’arte? E cos’è, se non un’opera d’arte messa in mostra, quel bel video realizzato da Adrian Paci che scorre su uno schermo nell’atrio: un suggestivo colpo d’ala che evoca la storia di un gruppo di bambini che ripuliscono e ridanno vita a un cimitero del suo paese, nell’Albania del regime comunista? Un film che andrebbe osservato con attenzione e in un luogo più riservato e raccolto, e invece è esposto come segnale a far numero in uno spazio di transito.

Serve davvero, per render chiaro il traguardo d’arrivo e rendere abitabile il Macro, questo maltrattare le opere che sono già passato, per far posto solo ad esperienze effimere d’animazione, a stupori e sorprese divertenti ma usa e getta? Domande e dubbi. Non bocciature pregiudiziali. Ci sarà tempo per tirare le somme Come deve esserci tempo per correzioni in corsa.

Libertà e responsabilità: sono i due principi che secondo Michelangelo Pistoletto devono distinguere sempre il lavoro di un’artista o di chi aspira a diventarlo. Il maestro dell’arte povera li ripete ripercorrendo le tappe della sua carriera e illustrando la sua ultima utopia: una democrazia da rifondare nella prassi, partendo dalla capacità di riconciliare i due opposti da cui si genera ogni cosa. Quel terzo cerchio intrecciato, ribattezzato il Terzo Paradiso, che in varie forme sta portando in giro in tutto il mondo. Una lezione sul valore del sogno e della creatività e sulle virtù del confronto e dell’ascolto che è sicuramente il punto più alto della festa inaugurale del Macro.

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Le fotografie sono di Ella Baffoni

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