Danilo Maestosi
Alla Galleria Nazionale di Roma

La città di Rotella

Una grande mostra (160 opere) celebra il mito di Mimmo Rotella: il suo occhio informale fissò i confini delle nuove metropoli, fatte di pubblicità e consumo, di miti e passioni volatiti. Prima della Pop art

La grande sala alle spalle dell’ingresso trasformata in una sorta di piazza, le opere ammassate l’una contro l’altra lungo grandi pannelli che recintano tutte le pareti. Così la Galleria nazionale d’arte moderna ha deciso di rendere omaggio nel centenario della nascita a Mimmo Rotella (1918-2006), maestro del Novecento consacrato da fama internazionale, accogliendo 160 lavori che coprono l’intero arco della sua carriera. La più ampia retrospettiva che gli sia mai stata dedicata.

È un effetto di regia scelto dai due curatori Germano Celant e Antonella Soldaini, e condiviso dalla direttrice della Galleria, Cristiana Collu. La sala d’esposizione allestita come un esterno metropolitano, uno spicchio di città da attraversare a testa in su, per restituire al visitatore quello scatto d’immaginazione cui Rotella deve la svolta che lo ha reso famoso: strappare manifesti dai muri e usarli come materiali con cui rileggere la realtà del suo tempo. E anche – aggiunge Celant – per inondare lo sguardo con una sovrapposizione di immagini che accetta come una irreversibile sfida di contemporaneità l’abbuffata di sapori e d’icone del popolo della Rete.

La scena è indubbiamente di forte impatto. Ma è un gioco di simulazione che funziona solo in parte. Perché la città con cui dovremmo entrare in complice empatia è in realtà una città invisibile, artificiosa, praticamente estinta , lontanissima da quella che abbiamo oggi sotto gli occhi : abitata da un altro popolo più rabbioso e distratto e da altre icone. Una città dove scritte sui muri, graffiti, tag, fumetti e figure di street art hanno preso il posto dei vecchi manifesti spediti in pensione come cimeli in disarmo. Dove gli stessi annunci pubblicitari seguono ormai altri codici e altri linguaggi.

Perché la Dolce vita, mitico altrove di quell’Italia che si stava ridestando e di quella Roma profetizzata da Fellini che aveva ispirato anche Rotella, è ormai solo un pallido riflesso di nostalgia. E quei simboli anni ’50 e ’60, quando in giro per le strade i manifesti celebravano l’epopea del cinema, le glorie, i divi di Cinecittà e di Hollywood, o le meraviglie del circo, o ancora l’ingenuo stupore delle massaie dell’Italia del boom di fronte ai primi elettrodomestici, ai nuovi manicaretti da portare in mensa, appaiono come fantasmi di una fantasia datata che inchioda ingiustamente, in questa visione indistinta e sommaria da tazebao, Mimmo Rotella ai confini del pezzo di secolo scorso da cui proviene. E perché infine quell’addensarsi confuso di opere alle pareti, che scoraggia un rapporto diretto con ogni singolo lavoro, più che alla democrazia in presa diretta del web rimanda alla sofisticate e capricciose gerarchie di gusto delle quadrerie nobiliari.

Per fortuna a compensare questo effetto di spaesamento superficiale i curatori hanno introdotto due utili correttivi. Il primo è l’aver raggruppato in comparti diversi le opere di Rotella, così da evidenziare in modo molto netto gli scarti e gli scatti di stile che caratterizzano i codici d’uso, la selezione e il trattamento delle immagini e delle schegge di frasi che la raffinata fantasia di Rotella ruba non solo ai muri ma all’universo della comunicazione che lo circonda. Una suddivisione in sei capitoli che riassume tutti i passaggi cruciali , gli attraversamenti di frontiera, gli andirivieni che lo incoronano come uno dei precursori più incisivi dell’arte pop.

Si parte dall’inizio degli anni ’50 con la folgorazione per le immagini e la grafica dei manifesti di strada come miniera di nuove invenzioni e si finisce con il ritorno negli ultimi anni alle icone della pubblicità, dilatate su scala sempre più grande e aggiornate da una nuova attenzione all’universo e ai supereroi del fumetto popolare. Passando negli altri tabelloni per la fase – a mio avviso la più emozionante – in cui Rotella, restituendo ai muri ciò che gli ha tolto, si concentra sulla lavagna e sulla pasta di segni collosi e casuali messa a nudo dalla rimozione delle affiches. Per la fase in cui esperimenta i rimandi espressivi delle fotografie in bianco e nero stampate, rimontate e rielaborate sulla tela. Per l’impennata d’autore che lo porta a prendere distanza dalle icone che lo hanno reso celebre, cancellandole e nascondendole con fasce e velature sovrapposte fino a coprire l’intera visione. Per il nuovo guizzo con cui riscopre il piacere della pittura e del segno aggiunti a completare e dirigere l’impatto dei suoi abituali mosaici di poster rimasticati. Uno sforzo di tenersi al passo con un mondo, una realtà in continua mutazione , di abbattere e superare le prigioni che il suo successo e le sue quotazioni di mercato gli hanno costruito attorno, che è sicuramente prova tangibile del suo talento, della sua statura d’artista. Dell’eredità e dell’esempio che Rotella ci lascia.

Il capitolo più rilevante? Sicuramente il primo, il tabellone dei decoupage, l’invenzione che lo iscrive tra i pionieri e gli interpreti più radicali dell’arte pop. Capace di intuire prima ancora di Warhol, l’immediatezza, la capacità di coinvolgimento, di resa in presa diretta, che quelle figure di divi ed eroi della Storia, comparse e marionette pubblicitarie, da Marilyn Monroe a Elvis Presley, da Kennedy al giullare ghignante del cachet Fiat, effigiate su locandine di film e manifesti promozionali, sprigionavano. Bastava staccarle dai muri e ricomporle a frammenti in altri assemblaggi, come divinità di una nuova mitologia, eroi di nuove metamorfosi. È stato lui il primo a capirlo e a farlo, scendendo in strada e attaccando i muri con dei raschietti. Anche se solo in un secondo momento la forza e la carica umana di quei personaggi si è fatta avanti ed ha preso voce, rivendicando di mantenere almeno in parte la propria riconoscibilità. Obbligando il Rotella pittore, nato e cresciuto in ambito informale, a farsi da parte e a smettere di usare quei fogli lacerati e frantumati solo come macchie di colore e trame di segni. Composizioni astratte e assemblaggi di figure si alternano in modo confuso in quel primo tabellone, rendendo più difficile comprendere questo processo di conversione iconica. Processo tutt’altro che lineare del resto, di cui fondo quel caos di messaggi e scelte contrastanti programmato dai curatori finisce per essere rappresentazione fedele.

Ma il filo d’Arianna per ridare senso e misura alla valanga di suggestioni di questa mostra ci arriva da un secondo, più decisivo accorgimento di regia. Di fronte ad ognuno dei sei grandi pannelli è sistemata una bacheca, che diventa quasi un manuale di istruzioni per l’uso ben più utile della mappa con posizione e titolo di ogni singolo quadro. Sulla sinistra, la biografia dell’autore riassunta da una stringata lista di date e informazioni. Adagiate sul piano, cataloghi, foto, disegni, stralci di lettere, testimonianze. È così che riusciamo a sapere come e dove si è acceso il lume del pop: in America, dove Mimmo Rotella si era rifugiato in piena crisi creativa, approfittando di una borsa di studio. Così riusciamo a ricostruire come era maturata precedentemente la sua vocazione per l’arte astratta: a Roma, dove risiede dal ’45, con la benedizione di un gruppo, Forma uno, e l’esempio di autori come Dorazio, Carla Accardi e Turcato, in prima linea nella battaglia per svincolare l’arte italiana dal monopolio del realismo sociale. Che bussola guida Rotella in quei continui andirivieni fra la provocazione concettuale dei decollage e il bisogno di fare comunque pittura.

Ogni bacheca una massa di notizie che ci consentono di ricucire la sua carriera, i suoi sbalzi tematici, i nuovi compagni a cui si unisce lungo la strada.  E la complessa cartina geografica dei suoi soggiorni: dall’America a Parigi, dove fa lega con il Nouveau realisme, da Parigi a Roma, per poi stabilirsi definitivamente a Milano.

A completare il ritratto di Rotella, infine, due piccoli siparietti. Nel primo un’antologia di film e documentari d’epoca. Nel secondo, una galleria di ceramiche con busti cilindrici maschili stilizzati, reinventati da inserti di arte povera e da una massiccia dose di ironia. Peccato – sarebbe stata un’aggiunta intrigante – manchi un confronto fra le sue Marilyn (accanto al titolo) e quelle di Warhol (qui accanto), due cavalli di battaglia della Pop art. Provate col fai da te, ripescando qualche immagini in Rete o su un catalogo. Scoprirete che a suo modo Mimmo Rotella ne esce vincente: le sue icone non hanno l’aureola patinata di Warhol, ma si trascinano appresso, con la loro natura di manifesti strappati dai muri, uno spessore ruvido di segni, cicatrici, che ne prolungano davvero la vita.

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