Nicola Bottiglieri
Ancora sulla tragedia di Genova

Il Ponte e il rito

Sul ponte Morandi si è consumato uno scontro fra il dio del Progresso cieco, violento, superbo e narcisistico e la natura umile, discreta, paziente che ha sopportato per più di 50 anni un oltraggio...

Se c’è una persona al mondo che a buon diritto può parlare di ponti, questa è il papa, il sommo pontefice romano. Infatti il titolo di pontefice fa riferimento al costruttore di ponti (pontem facere) e ha una origine molto lontana, risalente addirittura al mondo della Roma antica. Il titolo di pontefice indica una prerogativa dei sacerdoti del ristretto collegio dei pontifices, i quali presiedevano a molte attività come il controllo del culto, dei responsi, l’ accoglimento delle divinità straniere, i rituali concernenti i funerali, ecc. Una di esse era quella di controllare la costruzione di ponti attraverso riti codificati. Il termine pontifex, a partire dal quarto secolo dopo Cristo, fu rivolto ai vescovi cristiani, ma dal Rinascimento in poi si suggellò nella persona del vescovo di Roma.

Il libro di Anita Seppilli, Sacralità dell’acqua e sacrilegio dei ponti, (Sellerio, 1977) individua attraverso una analisi incrociata fra etimologia, archeologia e antropologia l’antichità del termine ed avverte subito che la voce pons è presente in epoche anteriori al mondo romano e si ritrova anche nel sanscrito e nelle aree indoiraniche, significando sentiero, luogo di passaggio, strada. Nella lingua greca pontos, acquista il significato di sentiero nel mare, in contrapposizione a thalassa, il mare in generale. Scrutando ancor più nel buio dei secoli si vede che il termine nasce nel mondo delle palafitte, dove indica la passerella che unisce la terra con un ambiente abitato sull’acqua. Una eco di questa funzione si ritrova ancora nella voce italiana pontile e pontone, che indicano appunto una struttura di legno sull’acqua.

Con il tempo, il termine si allontana dai manufatti concreti e acquista un significato più ampio: Roma, diventa così la città del ponte sul Tevere, il ponte Sublicio, il più antico ma anche il più sacro; tuttavia essa stessa è il ponte che unisce l’Italia settentrionale all’Italia meridionale. Perciò il pontifex diventa colui che amministra e ricompone le divisioni. Non possiamo riportare in questa sede la ricca e vertiginosa fioritura di implicazioni osservate dagli studiosi e riportate dalla Seppilli, circa la funzione reale del pontifex ma su una vogliamo richiamare l’attenzione, per la sorprendente attualità a cui rinvia: nel mondo romano i pontefici sarebbero coloro che aprono la via alla comunità in migrazione.

Insomma, i concetti di ponte e pontefice sono impastati di significati mistico-sacrali, indicano manufatti fondamentali per la vita dell’uomo, pertanto la loro costruzione deve avvenire attraverso rituali, conosciuti appunto dal collegio dei pontefici. Il valore magico dei ponti non si arresta con la caduta dell’Impero Romano, ma permane anche nel medioevo e numerosissimi sono i riscontri nel folclore relativi ai ponti del diavolo ed alle avventure straordinarie che possono capitare a chi su di esso si avventura. Una estensione di questo immaginario lo si ritrova anche nelle prove dei cavalieri di ventura che devono superare il ponte sull’abisso per trovare il santo Graal. Ponte sull’abisso può essere anche la nave di legno che solca un oceano o un mare sconosciuto, avendo la profondità del cielo sulla testa e quella delle acque sotto i piedi.

Viene da chiedersi a questo punto perché l’attraversamento oppure la costruzione di un ponte comporti oltre che una grande perizia tecnica, una ancora di più notevole consapevolezza religiosa. Il fatto è che costruire un ponte, un manufatto dell’uomo che unisce ciò che da sempre la natura ha diviso, è un atto che ha le caratteristiche del sacrilego. Questa definizione già presente nel titolo del libro della Seppilli presuppone l’idea che la natura abbia qualche cosa di divino, sia essa “il mantello di Dio” e pertanto ogni violazione alla sua forma, alla sua integrità sia un attentato alla sacralità di cui è pervasa. Questa sacralità viene ancor più violata quando il manufatto dell’uomo ferisce le acque dei fiumi da sempre abitate da ninfe, ondine, fate o come nel caso del mare dalle sirene o dal potente dio Nettuno. I valori sacrali dell’acqua, molto vivi nel mondo antico sono poi trapassati nel mondo cristiano, dove avremo le acque benedette e le acque pagane, quelle miracolose (Lourdes), insieme alle acque battesimali, lustrali, ecc. Erigere un ponte su un fiume quindi è un sacrilegio a cui deve seguire necessariamente un sacrificio riparatore, perché questo non solo vìola l’integrità e la forma sacra della terra, ma umilia per sempre il dio che vi abita, mettendo briglie di legno sulla sua testa e ferendo con i piloni appuntiti il corpo che vive in quel luogo. Un esempio di questo rapporto fra ponte e sacrificio successivo è presente a Roma sull’isola Tiberina: il ponte è ornato di colonne sulle quali sono scolpite quattro teste a ricordare che ci furono sacrifici umani dopo la sua costruzione.

La complessità rituale che accompagna la costruzione e la manutenzione dei ponti è giustificata dal fatto che queste attività sono viste come riti di fondazione. Perciò, rito di fondazione sarà il gesto di tracciare un solco per delimitare il perimetro di una città, l’attraversamento di uno stretto di mare da parte di una nave, prendere possesso di un luogo dando a questo un nome, costruire una casa o piantare alberi, ecc. Riti di fondazione che si differenziano da quelli ordinari perché sono gesti solenni che si fanno una volta sola e valgono per sempre, segnando in questo modo l’inizio della vita e della storia per una persona, per una città e per un popolo.

Possiamo leggere la tragedia del ponte Morandi a Genova, attraverso il mito antico? Credo proprio di sì. Infatti, la sua costruzione fu un vero rito di fondazione perché univa due parti della città da sempre divise. Fu un sacrilegio perché violò la bellezza e l’integrità del paesaggio. Fu un sacrilegio necessario, in ogni caso, in nome del dio Progresso che umiliò le ninfe che abitavano il fiume Polcevera, ma fu fatto senza i riti necessari da parte del collegio dei sacerdoti. I riti necessari, in questo caso, dovevano essere il rispetto della sua funzione. Ossia: non strapazzarlo ad oltranza per più di mezzo secolo; manutenzione costante, che come sappiamo non è stata sempre rigorosa; rispetto dell’ambiente, ampiamente ignorato. L’arroganza di quei piloni che umiliavano la natura sottostante fanno stringere il cuore nel vedere le case di sotto, immaginando lo smog che cade dall’alto ed entra dalle finestre negli appartamenti.

Senza ironia, possiamo dire che nella tragedia del ponte Morandi vi è stato uno scontro fra il dio del Progresso cieco, violento, superbo e narcisistico e la natura umile, discreta, paziente che ha sopportato per più di 50 anni un oltraggio, per poi vedersi calpestata ulteriormente dalle rovine del suo nemico. Un dio Progresso che, a forza di celebrarsi, sta uccidendo se stesso, divenendo cannibale del suo stesso corpo. Un dio Progresso che se vuole entrare nel Pantheon della modernità deve fare i conti con gli dei pagani o cristiani che lo hanno preceduto. Un dio Progresso che tutti noi veneriamo con i gesti quotidiani ma che sta abbracciando sempre di più i suoi seguici rischiando di soffocarli in una stretta asfissiante.

Nel mondo romano esisteva la dichiarazione di “luogo scellerato” riservata a quei luoghi dove era avvenuto un delitto esecrabile. Sarà il caso di ricordare le rovine del ponte dove hanno trovato la morte 43 persone in questo modo?

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