Danilo Maestosi
Alle Scuderie del Quirinale di Roma

Il mondo di Ovidio

Una sontuosa mostra racconta l'arte nata dalla poesia di Ovidio e dalle sue provocazioni: la banale normalità del male, la mitologia come un infinito labirinto di inganni, il piacere sempre accompagnato dall’ombra del dolore

Mancava da tempo a Roma una mostra che, sconfinando oltre le dogane dell’archeologia, facesse da ponte tra il mondo antico e la sensibilità contemporanea. Un vuoto che le Scuderie del Quirinale colmano con una mostra in cartellone fino al 20 gennaio che chiama in scena, nel bimillenario della morte, uno dei più grandi autori della letteratura latina: il poeta Publio Ovidio Nasone, nato a Sulmona nel 48 a.C e scomparso tra il 17 e il 18 a.C in un oscura località del Mar Nero, dove dieci anni prima Augusto lo aveva spedito al confino per punire insieme alla licenziosità dei suoi scritti anche la cattiva influenza esercitata sulla figlia dell’imperatore Giulia Minore, anch’essa esiliata nello stesso anno per adulterio.

Al dissidio con il padre fondatore dell’Impero romano – tema centrale della sua biografia e di quella fama di intellettuale ribelle e vittima del sistema che probabilmente contribuì alla salvezza e alla trascrizione nei monasteri del medioevo dei suoi testi, anche i più licenziosi, e poi alla loro diffusione nelle corti del Rinascimento e della Controriforma – questa rivisitazione delle Scuderie, curata da Francesca Ghedini a sintetizzare dieci anni di lavoro interdisciplinare alle spalle, dedica giustamente i suoi primi capitoli. In quello scontro aperto tra quel letterato anarchico, scettico e miscredente che cantava la debolezza dell’uomo e la tentazione dei sensi, e un’inarrestabile ambizione di potere assoluto che chiedeva certificazione al mondo degli dei e alle regole di una morale bigotta, si rispecchia un grumo di conflitti e contraddizioni che è lato oscuro della Storia e della cronaca quotidiana. Per rimarcare questo rimbalzo nell’attualità e nel contemporaneo di una figura apparentemente lontana come quella di Ovidio, i curatori hanno voluto premettere alla mostra un prologo affidato a un guru americano dell’arte concettual che al poeta delle Metamorfosi ha dedicato una istallazione ad hoc. Tappezzando le pareti di un piccolo corridoio d’ingresso con una ventina di scritte al neon che in latino e in inglese scolpiscono un campionario di citazioni del poeta. Frasi di cui traduciamo in italiano qualche esempio: «La perfezione porta distruzione», «Tutto ha cambiato aspetto», «Ogni amante è un soldato in guerra», «Niente è certo per l’uomo», «Nulla in tutto il mondo esiste per sempre».

Più che il senso sprigionato da queste parole, è il riverbero artificiale e colorato delle luci a far da contrappunto allo spettacolo della prima sala, che accoglie il visitatore con l’algido biancore di tre marmi antichi che raffigurano in varie pose lo splendore di Venere, contro lo sfondo complice e ammiccante come il tuffo in un sogno di un affresco di giardino, arrivato in prestito da Pompei. C’è la sfacciata bellezza della Venere Callipigia che ci porge come un dono la rotondità perfetta dei suoi glutei, ma anche la casta e maliziosa nudità di altre forme che si intravedono mentre si allaccia un sandalo, e infine il gesto pudico e ammaliante di un’altra celebre versione della Dea, ripresa un paio di sale più in là in uno splendido dipinto di Botticelli, che, come colta di sorpresa, si nasconde il pube. «Felice chi si consuma nella battaglie di Venere», ci ricorda Ovidio, maltrattato da uno dei pochi ritratti di fantasia che provano invano a restituirne le sembianze, firmato a fine Quattrocento dal ferrarese Battista Benvenuti detto l’Ortolano, che lo dipinge con un turbante e vesti da turco, una barba e occhi languidi che mi ricordano, chissà perché, uno dei luridi vecchioni che insidiano la povera Susanna di tanti quadri famosi.

A un moralista come Augusto, questo inchiodare ai piaceri della carne l’immagine e il culto di Venere, una delle figure divine scelte come pilastro della sua nuova Roma, non deve essere piaciuto affatto. Un attentato sovversivo reso ancora più pesante dal modo con cui Ovidio, con sguardo fin troppo laico, rilegge le avventure di tutti gli dei, smascherando, l’altra faccia di crudeltà e arbitrio che ognuno dei numi esibisce quando entra in contatto con gli umani e le follie del vivere furie e debolezze d’amore.

Ecco la Venere protagonista della tresca con Marte, scoperta dal marito Vulcano che irrompe nella stanza da letto sorprendendo i due amanti: una scena immortalata con un certo distacco in tanti affreschi pompeiani e poi ripresa con un gusto di più accentuato vouyerismo in tanti capolavori di maestri del Rinascimento e del Barocco che impreziosiscono il percorso della mostra. Ecco la Venere fragile e dimessa che avvolge tra le sue braccia, impotente e sconvolta come una donna qualunque, il cadavere del suo amato Adone.

Già, fragili e cattivi fino alla perversione gli Dei dell’Olimpo quando si sentono sfidati. Dov’è finito il nobile distacco di Apollo, quando il sileno Marsia osa sfidarlo in concerto, un flauto magico contro la sua lira? Apollo vincerà con l’inganno e per vendetta scuoierà vivo il suo rivale: una scena da film dell’orrore che rivive in mostra in un gioiello scultoreo prestato dai Musei Capitolini.

Una difesa del proprio potere e del proprio orgoglio spinta dagli Dei fino al genocidio: Apollo, ancora lui, e Diana, che a colpi di frecce cacciano e uccidono uno dopo l’altro figli e figlie di Niobe, che per vanità aveva oltraggiato la loro madre Latona. Una strage che ha infiammato la fantasia degli artisti: tra le tante opere in mostra un bellissimo affresco proveniente dal museo archeologico di Napoli reso ancora più cupo dall’idea di rievocare l’eccidio con lo stesso sguardo distaccato riservato a una qualunque scena di caccia. La banale normalità del male: Ovidio nelle sue Metamorfosi ci aveva già messo in guardia. La mitologia come un infinito labirinto di inganni, il piacere sempre accompagnato dall’ombra del dolore: cifra inconfondibile di un autore che ha attraversato con la sua poesia e uno sguardo senza remore o censure, l’universo delle peripezie d’amore, raccontandole come inesorabili cadute di senso , di misura e di stile, un contagio che non risparmia nessuno, tantomeno gli Dei. La passione come un trabocchetto al quale è impossibile resistere: rinunciare è comunque perdere, stare al gioco è comunque perdersi, è lui il primo a saperlo.

Storie che l’arte figurativa ha trasformato in icone di straordinario impatto visivo, anche se a volte fin troppo addomesticate, capovolgendone a volte la lezione. Come sembra ricordarci una delle chicche più intriganti di questa mostra, che arriva in prestito dal museo del Bargello. Una enorme testiera di letto dipinta dall’Allori per una famiglia nobiliare dell’epoca scandita da riquadri che ripercorrono le avventure erotiche di Giove, dal ratto d’Europa, alla voluttuosa seduzione di Leda nelle vesti di un cigno, e alla elezione di Ganimede come coppiere dell’Olimpo.

Travestimenti, astuzie truffaldine, sublimate dalla fantasia dei più grandi maestri come Leonardo, autore di un capolavoro che arriva in copia dagli Uffizi, che trovano il loro contraltare in altre storie di fallimenti e crolli, altri miti esemplari, esaltati in altre icone da antologia di cui questa mostra ci offre uno stimolante ripasso. Come la sorte di Narciso, vittima della sua vanità. O quella di Apollo e Dafni: il dio che invaghito insegue la ninfa immune al suo fascino, e alla fine quando riesce ad abbracciarla strige tra le mani solo l’arbusto in cui si è tramutata. Come la tragedia di Piramo e Tisbe, progenitori della contrastata e fatale passione che condurrà alla morte Romeo e Giulietta. Come la rovinose sfide di volo concluse dalle cadute di Icaro e di Fetonte. Due figli, di un uomo e di un dio, accomunati dalla stessa furia accecante e dalla stessa sorte.

Più che legittimo l’orgoglio con cui Ovidio commenta la sua impresa letteraria . Frase stampata sull’ultima parete con cui la mostra si congeda: «Ho ormai compiuto un’opera che non potranno cancellare né l’ira di Giove, né il fuoco, né il ferro, né il tempo divoratore… e il mio nome resterà indelebile. E dovunque si estende la potenza romana sulle terre domate, sarò letto dalla gente, e per tutti i secoli, grazie alla fama, se c’è qualcosa di vero nelle profezie dei poeti, vivrò…».

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