Giuseppe Prode
In memoria di un maestro

Eligio Paoni, fotografare è capire

Ricordo di Eligio Paoni, un grande fotografo che aderiva alla realtà che voleva testimoniare attraverso le sue immagini. È stato testimone di una stagione feconda tra arte e impegno giornalistico

Le giornate di autunno iniziano a scorrere, ma la coda di estate e i colori poco autunnali ti danno ancora quel piacere di passeggiate al tardo pomeriggio o meglio ancora serali, tra strade e vicoli e piazze qui a Roma. Il senso della leggerezza, prima di intabarrarci tutti in vista di stagioni per la verità sempre più miti, e questa leggerezza in questi ultimi giorni è stata stracciata dalla vita. Ieri Eligio Paoni se ne è andato. La scorsa settimana, Emiliano Mancuso. E allora mi fermo, mi fermo e provo a riavvolgere la pellicola della mia vita e la testa torna al 2003, proprio di questi giorni. Lavoro con la fotografia dal 1990, prima gli archivi – mia grande passione – poi mostre e libri, e Contrasto, Grazia Neri erano le agenzie in Italia che avevano saputo declinare l’inizio di un cambiamento in quel mondo. A Milano, Grazia Neri aveva una galleria, a Roma Roberto Koch puntò moltissimo sulle mostre che finalmente entravano nei Musei e sull’editoria fotografica. Stavo scrivendo, entravo in agenzia, e fu un’emozione enorme vivere quell’atmosfera.

Contrasto era la casa dei fotografi, entrando subito sul corridoio di sinistra prima stanza a sinistra (eravamo in via degli Scialoia) feci ancora in tempo a vedere la camera oscura, di lì a qualche giorno dismessa: entrava prepotente il digitale nella produzione dei servizi. Molti ragazzi, giovanissimi, avevano già raccontato storie potenti: che si tornasse da una piazza, una manifestazione dall’altra parte del mondo, il privilegio per noi che lavoravamo lì era stare gomito a gomito con loro e ascoltare storie, vedere in anteprima le selezioni dei lavori che poi sarebbero diventati pubblicati esclusive e molto altro. Mario Spada e la sua Napoli, Riccardo Venturi e l’Afghanistan, Daniele Dainelli e il coloratissimo Giappone, la ditta Gerbasi&Pedone che da Palermo avevano raccontato la seconda guerra di Mafia, e molti molto altro.

Una mattina, presi un caffè con Eligio Paone, lui era uno dei vecchi – si fa per dire – in Agenzia, stava lì dal 1990: aveva ancora i segni del pestaggio subito a Piazza Alimonda a Genova nel 2001, dopo aver fotografato Carlo Giuliani; erano trascorsi poco più di due anni. Non ho mai capito il senso della parola fotografo militante o forse la comprendo perfettamente. Ecco, lui, Eligio, andava e raccontava come molti dei suoi colleghi. Era un artigiano della fotografia, come tanti, entrava e usciva dall’ufficio col peso delle macchine e delle ottiche per andare a coprire una notizia e pian piano, quando ci incrociavamo nei corridoi, il caffè era una scusa per due chiacchiere. Parlare di fotografia, parlare di quello che aveva visto e che ci restituiva con semplicità, perché questo è la fotografia ovvero restituzione di un accadimento complesso condensato in un tempo difficilmente immaginabile: un 60” di secondo, e con tutto quello che ti gira attorno.

Ne aveva vissute storie, il terremoto a San Giuliano di Puglia era la più recente, la Palestina e la guerra continua, e poi il G8 a Genova e quello che colpiva me, come osservatore di quel mondo che potevano essere fogli di contatto o selezione grezza del lavoro, era la vicinanza tra la scena fotografata e il suo autore. Non è banalità: è un modo di porsi, di essere, di fare il fotografo: traduceva il suo pensiero nello stare il più possibile vicino a quello che ci voleva raccontare, senza curarsi minimamente del pericolo a cui andava incontro. È una bestia strana, il fotografo: in azione diventa altro e lo percepisci dalle fotografie, da come si pone e da come ti racconta quanto fatto. Vive uno sdoppiamento, sul campo: doveva portare a casa il lavoro e lui – Eligio – lo faceva con apparente semplicità. Dopo Genova, dopo il pestaggio subìto (fate una breve rassegna in rete di quello che visse), aveva suo malgrado assunto i gradi di veterano e, in agenzia, vederlo voleva dire «chissà cosa avrà portato a casa», o semplicemente un caffè o un pranzo veloce nei pressi.

Il mondo della fotografia è cambiato rapidamente, e questo cambiamento ha fatto sì che lui come molti altri appendessero le macchine al chiodo. Il suo archivio ci dovrebbe restituire quanto ha prodotto, un pezzo di storia fotografica e non solo, che è Memoria. Ma si sa, quest’ultima è merce rarissima di questi tempi e di artigiani come Eligio Paoni forse ce ne ricorderemo in pochi.

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