Giuseppe Traina
A proposito di "Le sottrazioni"

Padri di piombo

Nel suo primo romanzo, Carlo Brugnone racconta l'Italia degli “anni di piombo” applicando rigore storico a vicende familiari. E, alla fine, il terrorismo si mostra come una ferita ancora aperta nei sentimenti smarriti del Paese

In proporzione alla portata storica degli eventi, non sono poi tanti i romanzi italiani che abbiano sviluppato un’analisi coscienziosa e non manichea degli “anni di piombo”. Uno tra i più seri che ci sia dato conoscere è opera di Carlo Brugnone e s’intitola Le sottrazioni (Siké Edizioni, 2018, pp. 231, 20 euro). Brugnone esordisce nel romanzo con mano sicura, dimostrando piena consapevolezza dei processi storici e una squisita sensibilità per i processi psicologici che riguardano i non pochi personaggi, le cui vite si intrecciano in un gioco sottile di combinazioni: gli ha giovato in tal senso il suo apprendistato come autore di racconti, già raccolti in due libri – C’è ancora un’ora di luce e Da qualche parte – del 2008 e del 2010.

Il titolo del romanzo gioca sull’idea che le generazioni toccate, in vario modo e in diversi tempi, dalle vicende del terrorismo brigatista abbiano subìto varie forme di “sottrazione”: padri sottratti ai figli dal piombo delle P38 o dalla condizione di ergastolani “irriducibili”, figli sottratti alla vita da un aborto, relazioni parentali e occidui amori sottratti al fluire della vita da annosi silenzi e inconfessabili censure. E denaro, armi, tempo sottratti, a loro volta, al calcolo dei dadi che più non torna.

Ma sottrarre non significa cancellare: sicché l’oblio che alcuni personaggi del romanzo cercano di stendere sulle loro ferite prima o poi finisce per rivelarle alle persone più amate, non appena il caso si diverte a rimescolare le carte, a creare imprevedibili crocevia di destini, di nuovi amori o di nuove sottrazioni. Ma al caso si affianca la ragione umana, incarnata da Carla e Nanni, un paio di personaggi che, in età matura, si ritrovano a indagare insieme sulle radici di eventi legati alla stagione terroristica che si riverberano sul loro presente e su quello dei loro figli. Sicché nella seconda metà il romanzo, da storico-psicologico che era, si colora di mistero e, senza indulgere alla moda del “giallo”, si nutre di nuovi pimenti e stimola la curiosità del lettore verso una conclusione inattesa ma non inspiegabile.

Le sottrazioni è, dunque, un romanzo di incroci, sorretto saldamente da un intreccio strutturato per capitoli che imbastiscono un andirivieni temporale in un arco cronologico compreso fra il 1975 (l’autore, che vive a Milano da una quarantina d’anni, non perde l’occasione per ricordare vividamente l’omicidio di Varalli e Zibecchi per mano dei neofascisti) e il biennio 2011/12 in cui una serie di circostanze non sempre casuali fanno sì che i diversi destini della dozzina di personaggi coinvolti trovino uno sdipanamento risolutivo.

Nel corso degli anni, d’altronde, le vicende private (le morti, le nascite, le scomparse nell’ombra, gli amori, le malattie) si sono intrecciate a snodi storici cruciali come gli omicidi di Aldo Moro e Guido Rossa o la “marcia dei quarantamila” quadri Fiat. È caro a Brugnone ricordare sinteticamente le logiche di potere e di violenza che hanno ispirato queste vicende ma sempre riportandole a un nocciolo di motivazioni psicologiche che ruotano, senza alcun compiacimento freudiano, intorno ai ruoli familiari. Si potrebbe dire, forzando appena e senza per questo sminuire la forte presenza femminile che innerva le vicende narrate, che Le sottrazioni sia un romanzo sulla paternità; non è un caso che proprio la figura di Moro sia riportata più volte all’immagine della paternità: «Era un uomo che voleva riunire sotto lo stesso tetto i figli divisi di una nazione divisa, che credeva che il bene per una collettività scaturisse più dalla collaborazione che dalla competizione. Aldo Moro lavorava come un padre, come un padre amorevole e consapevole lavorerebbe per il bene della sua famiglia. […] li aveva spiazzati ben bene i brigatisti che l’avevano rapito. Questi credevano di avere davanti un uomo di potere, di processare il potere incarnato in un essere umano. E invece avevano catturato un padre di famiglia. Così, messi di fronte al loro fallimento, non restò loro altro da fare che giustiziarlo questo padre di famiglia».

Dietro questa rappresentazione di Moro si avverte l’eco di talune pagine dell’Affaire Moro di Leonardo Sciascia. E il manzonismo di Sciascia, il suo continuo ricondurre l’analisi di ogni vicenda politica alla responsabilità individuale senza per questo escludere la pietà dall’orizzonte del giudizio, è di certo uno dei due grandi assi ideologici che nutrono il romanzo di Brugnone; l’altro è costituito da una vena ironica lieve e profondamente rispettosa delle scelte umane, che non tarda a colorirsi di un amabile scetticismo sulla possibilità di realizzare la giustizia e la felicità (ed è, quest’altra vena, il “precipitato” della scrittura non giornalistica di Luigi Pintor, evocato in esergo dall’autore a saldo d’un antico debito di lettore affezionato).

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