Angela Scarparo
“Contro l'interpretazione” e “Autoritratto”

Contro la critica

Da Susan Sontag a Carla Lonzi: nelle riflessioni di due donne sull'ipertrofia della critica ci sono domande molto attuali sul rapporto tra arte e società. Ecco perché i loro saggi sono da rileggere

Nel 1966, negli Stati Uniti, esce un libro di saggi che porta la firma di Susan Sontag (nella foto accanto). È intitolato Contro l’interpretazione. Si tratta di una serie testi, più o meno lunghi, sul cinema (Muriel di Resnais, Vivre sa Vie di Godard), sull’arte (“Contro l’interpretazione”, “Sullo Stile”, “Note sul camp”) di notazioni comparative su singoli scrittori (“William Burroughs e il romanzo”, “Nathalie Sarraute e il romanzo”) o su determinate forme artistiche (“Happening: un’arte d’accostamento radicale”). Il materiale è tenuto assieme da una convinzione profonda: l’ipertrofia interpretativa nuoce profondamente all’arte. Sotto accusa la figura professionale del critico professionista, il cui lavoro sarebbe, spesso, in contraddizione con il mestiere dell’artista.

La tesi di Sontag è che l’eccesso ermeneutico che caratterizza la contemporaneità (la pubblicità non sarebbe altro che un continuo commento all’esistenza?), abbia finito per svuotare, impoverire, non solo l’esperienza artistica ma, addirittura, il mondo, e sicuramente le nostre vite. Secondo la scrittrice americana, i critici, nella maggior parte dei casi si limitano a svolgere funzione di supporto del mercato, dei giornali, e, più in generale, delle istituzioni.

Sontag non ci sta: la funzione della critica ha un senso solo laddove illumini l’opera e la chiarifichi. «Il fine di ogni commento sull’arte dovrebbe essere oggi di rendere le opere d’arte – e per analogia la nostra stessa esperienza – più reali, e non meno reali, per noi», dice. La critica ha senso solo se torna alla vita, al mondo, a noi. Il saggio in cui l’autrice americana, probabilmente, meglio esemplifica questa sua tesi è Genet di Sartre. Il testo, come si sa, riguarda l’ipertrofia interpretativa di Sartre, o quella che a Sontag pare tale. Ci sono volte, spiega Sontag, in cui il filosofo francese non solo perde di vista gli scritti, i testi (dello scrittore Genet) ma è come se unico suo interesse fosse quello di poter dire la sua sul mondo.

Due anni dopo, nel 1969, in Italia, Carla Lonzi (nella foto) pubblica Autoritratto. Si tratta di una lunghissima conversazione fra 15 artisti (uno dei quali è Lonzi stessa: Accardi, Alviani, Castellani, Kounellis, Consagra, Fabro, Fontana, Nigro, Paolini, Pascali, Rotella, Scarpitta, Turcato, Twombly, gli altri). I testi sono stati registrati durante varie interviste e poi montati assieme. Al di là delle intelligenti riflessioni che i singoli autori possano fare sull’arte (penso a quello che dice Pascali della relazione fra l’artista europeo e la modalità tutta americana di creazione del mito; o a quello che Carla Accardi dice sulla formazione delle artiste) il libro è importante perché Lonzi, che è (stata) critica d’arte, chiede espressamente agli artisti quale sia la loro relazione con la critica. È l’artista, sono gli artisti, a stabilite quadro istituzionale, norme, ed eventuale insofferenza ad esse, non il contrario.

La femminista Lonzi esprime, rispetto all’ipertrofia del discorso critico e interpretativo, la stessa insofferenza di Sontag. Il parassitismo di mercato e istituzioni, il ruolo che assumono nella vita degli artisti, sono i temi su cui più frequentemente l’autrice italiana si sofferma. Dice così: «In questi anni ho sentito crescere la mia perplessità sul ruolo critico, in cui avvertivo una codificazione di estraneità al fatto artistico insieme all’esercizio di un potere discriminante sugli artisti». E, ancora: «La nostra società ha partorito un’assurdità quando ha reso istituzionale il momento critico distinguendolo da quello creativo e attribuendogli il potere culturale e pratico sull’arte e sugli artisti».

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