Raoul Precht
Periscopio (globale)

L’utopia di Felipe

Ricordo di León Felipe, una delle massime espressioni della cultura spagnola del Novecento: con i suoi versi voleva far risaltare la disperazione dell’uomo calato in una realtà antipoetica e violenta

Fra i poeti della generazione del ’27, León Felipe è il più extra-vagante. Non stravagante (in questo senso se ne potrebbero menzionare altri, a cominciare da Rafael Alberti), ma proprio extra-vagante, poiché vaga e si disloca tanto nel suo mondo ideale, quanto in quello reale, spostandosi più in fretta e più in avanti di tutti, fino a diventare imprendibile. Si tratta davvero d’un poeta caminante, impegnato in una continua peregrinazione, dai dintorni di Zamora, dove nasce nel 1884, a Santander, città nella quale si stabilisce la famiglia, a Barcellona, dove si sposa, a Madrid, dove studia farmacia ed entra in contatto con i maggiori poeti della sua generazione, un po’ in tutta la Spagna e in Portogallo al seguito di compagnie teatrali – per un certo tempo alternerà infatti il lavoro stagionale di farmacista al mestiere d’attore –, e poi in Guinea equatoriale, all’epoca colonia spagnola, dove lavora nell’amministrazione di un ospedale, negli Stati Uniti – sarà professore di letteratura spagnola fra l’altro alla Cornell –, ancora a Madrid e Valencia per partecipare alla guerra civile, e finalmente dal 1938 in Messico, paese nel quale si stabilirà prima per rappresentare la Seconda repubblica come addetto culturale e poi in autoesilio dopo il fallimento dell’utopia repubblicana in Spagna e la vittoria del franchismo. Il Messico è anche il paese in cui muore il 18 settembre 1968, considerato, all’età di 84 anni, uno dei patriarchi del Novecento spagnolo.

La sua è una poesia fondamentalmente utopica, tale da prefigurare un linguaggio aperto e versatile cui l’uomo potrà attingere quando nel mondo trionferà la giustizia. Nel frattempo, per un lasso di tempo probabilmente molto lungo se non interminabile, bisognerà utilizzare tutte le risorse del linguaggio senza arretrare dinanzi alle sue varianti distruttive e persino blasfeme, cesellando versi che abbiano anzitutto una forza interiore e prorompente. La parola poetica è vicina a quella della canzone, deve anzi farsi canto, in un dialogo continuo con un Dio spesso sordo nel quale è l’uomo, incapace di ascendere, a chiamare Dio presso di sé per raccontargli, protestando, le proprie sventure. (“Yo no puedo tener un verso dulce / que anestesie el llanto de los niños / y mueva suavemente las hamacas como una brisa esclava. / Porque yo no he venido aquí a hacer dormir a nadie.” – “Io non posso avere un verso dolce / che anestetizzi il pianto dei bambini / e si limiti a muover dolcemente le amache come una brezza schiava. / Perché non son certo venuto qui per addormentar nessuno”). Non è allora singolare che il tono sia talora eccessivo, la voce rauca, la versificazione smisurata, tutti elementi che devono anzi far risaltare la disperazione dell’uomo calato in una realtà antipoetica e violenta. Novello Prometeo, León Felipe vuole incendiare il mondo con la sua protesta, che si sostanzia di versi epici.

Dicevamo della peregrinazione: è fin troppo evidente come fin dal suo primo libro, Versos y oraciones del caminante (1920), essa sia uno dei topoi poetici più cari a Felipe, vagabondo tanto quanto il suo io poetico: “para mí el bordón sólo / del romero” (“per me solo il bastone / del pellegrino”), scrive infatti per autodefinirsi. Anche il cammino che percorre, come del resto tutto nella vita, è sottoposto all’alea, a un’incomprensibile casualità; da parte sua, il poeta non può però condividere alla cieca i percorsi di uomini raggruppati in greggi obbedienti, ed è quindi costretto alla solitudine: si veda a mo’ d’esempio il distico “¡Qué día tan largo… / y qué camino tan áspero!” (“Che lunga giornata / e che aspro cammino!”) Al tempo stesso, non rinuncia però al tentativo di una vibrante e rapsodica comunicazione con gli altri. Di qui le caratteristiche di estrema mobilità e di convulsa vitalità, ma anche di oralità, della sua poesia, basata su fiammate e intuizioni più che sul dispiegarsi pacato e organizzato del ragionamento. Siamo peraltro agli antipodi dell’ermetismo; tutto è anzi reso costantemente accessibile al lettore, e l’impegno, anche quello politico, sgorga automaticamente dal dettato poetico, che è semplice, privo di virtuosismi tecnici, basato su rime che definiremmo quasi elementari, su assonanze, ripetizioni, onomatopee, espressioni colloquiali tratte dalla vita quotidiana. È un tono profetico, il suo, whitmanniano – non a caso di Whitman sarà liberissimo traduttore -, ma ispirato anche alla Bibbia, a Blake, ai metafisici inglesi, fino a raggiungere a volte una sorta di parossismo espressivo.

(Sulle traduzioni di León Felipe, che sono in realtà delle trasposizioni poetiche o parafrasi o ri-creazioni, comprese quelle dall’Otello e dal Macbeth, ci sarebbe molto da dire. Per Felipe, in questo non così distante da Pound e invece lontano anni luce da Borges – l’altro traduttore di Whitman in spagnolo – con cui ebbe un famoso scontro polemico, la traduzione significa semplicemente far propria l’intuizione dell’autore tradotto e renderla nella maniera più personale possibile; è lo spirito del testo, insomma, a prevalere sul rispetto di vocaboli e forme metriche, e a volte con notevole temerarietà.)

Dopo essere riparato in Messico, Felipe crea una propria scuola poetica, un gruppo di alto livello di cui faranno parte il prediletto Juan Larrea, ma anche Emilio Prados, Manuel Altolaguirre e Luis Cernuda, tutti in qualche modo “araldi dell’esodo”, nella poesia dei quali – come notava fra gli altri Oreste Macrì – spesso la simbologia derivata dalla poesia di Felipe si fa poi abbastanza scoperta e vede nel padre ormai superato l’Europa, nel figlio impegnato in una costante ricerca la Spagna e nella terra promessa l’America, di cui il Messico sarebbe l’avamposto o la sineddoche. I due momenti che contrassegnano i titoli delle maggiori raccolte poetiche di Felipe, Español del éxodo y del llanto (1939) e Ganarás la luz (1943), vengono così sintetizzati in un unico movimento d’inesausta ricerca. Nei due volumi assistiamo alla creazione di una poetica universale ispirata appunto al concetto di esodo, nella quale l’individuo prende coscienza della propria condizione di sradicato e ne fa una forma di saggezza superiore, che gli consente anche, come già accennato, un dialogo trascendente con la divinità. Sebbene per Felipe la Spagna dei poeti sia votata, dopo il trionfo del franchismo, alla distruzione e alla morte, questa stessa condizione è in realtà condivisa dal popolo intero al quale è stata sottratta la libertà: “Me envolvistéis en llanto cuando vine, / he seguido vistiéndome con llanto / y el llanto es ahora mi uniforme…” (“M’avvolgeste in pianto quando venni, / ho continuato a vestirmi di pianto / e il pianto è ora la mia uniforme…”). I miti biblici, come sottolineato da Max Aub, servono allora anzitutto a opporsi alle mitologie imperanti, e il linguaggio profetico a dare al popolo un nuovo strumento d’espressione e di redenzione dalle molteplici sofferenze.

Se nella maggior parte dei poeti della generazione del ’27 il lato intellettuale e accademico limitava e talora poteva soffocare l’aspetto emotivo, in Felipe può dirsi che avvenga semmai il contrario (e che per questo egli sia avulso in realtà da qualunque corrente letteraria o scuola): nei suoi versi, cioè, l’emotività, seppur temperata dalla dovizia dei riferimenti culturali messi in campo, mantiene sempre un primato innegabile. Essa rappresenta davvero la cifra di questo poeta al contempo franco, profondo e scomodo, non sempre amato e anzi spesso osteggiato dai colleghi, la cui lezione ha comunque consentito di aggiungere nuovi colori e un tono più percussivo alla poesia spagnola del Novecento. Colori e tono peraltro ben rilevati da un cantante ispirato come Paco Ibáñez, che ha musicato con notevole successo popolare alcuni dei suoi testi e ha contribuito alla loro diffusione anche presso le successive generazioni.

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