Anna Camaiti Hostert
Lettera a un'amica

Memorie da sinistra

Nel 1968, una band formata da cinque ragazze italiane va a suonare per i soldati americani che combattono in Vietnam. In quell'avventura, ricostruita oggi da "Arrivederci Saigon”, un documentario di Wilma Labate, c'è anche un pezzo del nostro futuro

Cara Wilma Labate, ho scelto di scriverti una lettera invece di fare una recensione al tuo documentario Arrivederci, Saigon, primo per la confidenza e l’affetto che ci legano e poi perché i temi che tratti mi toccano in modo troppo personale per parlarne con il distacco necessario. Le emozioni che mi ha suscitato il tuo film infatti sono state talmente forti che più di un abbraccio fortissimo alla fine della proiezione non sono stata in grado di fare. Come si dice in inglese “I was overwelmed”, ma so che tu hai sentito benissimo l’intensità che il tuo film mi aveva comunicato. Le parole non mi venivano e forse l’avrebbero semplicemente trafitta o banalizzata. Per me, toscana di formazione comunista e insieme cittadina americana, infatti, il tuo documentario tocca corde e affetti che mi turbano nel profondo.

Ecco, al di là della ovvia considerazione, ma mai sottolineata abbastanza, del fatto che è il documentario di una donna che racconta una storia di donne, c’è qualcosa che comunque ti appartiene come persona e come artista: l’onestà del racconto che scaturisce dal conflitto e insieme la capacità di toccare le corde emotive di ognuno di noi. Una dote difficile da raggiungere e non sempre riesce. Ebbene tu ci sei riuscita perfettamente e con un’originalità davvero rara. Inoltre, aggiungo, dato che la storia si svolge nel 1968, quale modo migliore di celebrare senza retorici trionfalismi o “corny” nostalgia per come eravamo, il cinquantenario di un anno che inaugurò un periodo di grande rinnovamento nel mondo, ma anche di grandi conflitti? La storia di Le Stars, un gruppo musicale (un complesso, come si diceva allora) di cinque teenager toscane che in quell’anno, per tre mesi finirono per caso in Vietnam a suonare per le truppe americane, ci racconta un’esperienza irripetibile. Dovevano fare una tournée’ in Asia che includeva le Filippine e il Giappone, ma per un raggiro finirono invece tra Saigon e Da Nang in Vietnam del sud.

Durante la proiezione, queste donne provenienti da zone come Livorno e Piombino, prevalentemente allora feudi del PCI e da famiglie comuniste e popolari, raccontano cosa provarono quando si ritrovarono in quello che era considerato da tutta la sinistra il terreno del nemico, cioè tra i soldati americani che combattevano i Vietcong. Durante il loro racconto ho riso non solo perché lo spirito di queste donne ha rivelato una delle grandi doti dei toscani, cioè quella dell’understatement e dell’umorismo (“eravamo bruttine” oppure “quando ci dissero che saremmo andate in a fare un tour in Oriente, noi che eravamo state solo in Italia, eravamo al settimo cielo” oppure una di loro confessa che per un errore di comprensione dell’inglese fecero il contrario di quello che venne loro chiesto), ma anche perché nel raccontare questo momento della loro vita in cui si trovarono ad affrontare una tragedia senza precedenti per delle giovanissime come loro, lo fanno con grande leggerezza senza essere superficiali. E ho pianto nell’ascoltare questa esperienza, caduta nel dimenticatoio per cinquant’anni, perché si trovavano dal lato sbagliato. Un’esperienza che consentì a queste ragazze della provincia italiana di vedere first hand la tragedia della guerra del Vietnam, le body bags dei loro coetanei americani che rientravano a casa da morti avvolti nelle bandiere o il loro pianto da vivi quando dovevano andare al fronte, l’odore della morte, il razzismo che si respirava tra le truppe, ma anche la gentilezza nei loro confronti. Perfino l’addio a quell’esperienza è struggente e di grande portata empatica. Sull’aereo che le riportava a casa queste giovani donne alla felicità di essere sopravvissute a quell’inferno e di potere tornare a casa dalle loro famiglie infatti, abbinavano una sorta, se non di nostalgia, di tristezza per chi rimaneva e per un momento della loro vita senza uguali che aveva contribuito a formarle proprio grazie alla grande intensità emotiva che avevano vissuto.

La scelta del footage originale di quegli anni con le immagini e le parole di Martin Luther King, le performance di Aretha Franklin, di Wilson Pickett e altri musicisti neri che avevano costituito il background musicale di queste ragazze, e delle manifestazioni dei giovani americani contro la guerra in Vietnam insieme a quelle dei francesi e degli italiani di quell’anno magico è veramente eccezionale

Cara Wilma, il coraggio che hai avuto nel raccontare questa storia mi ha toccato molto e mi ha fatto tornare nel tempo a molti anni fa quando per la prima volta sono andata a Washington al Vietnam Memorial e ho visto le 58.000 tombe di giovani come quelli descritti da queste fantastiche donne. Di fronte a quel monumento, fatto a diagonale, in cui dal centro di un angolo si sale in opposte direzioni e si contano i nomi di migliaia di morti di cui la maggior parte non raggiungeva i 25 anni, ho pianto. Ho pianto non solo per la magnitudine della tragedia, ma anche per il disprezzo che avevo nutrito in passato verso di loro senza capire che anche quei ragazz erano vittime, vittime di un governo che aveva la coscrizione obbligatoria e dunque li obbligava ad andare in guerra e a morire. Di fronte a ogni tomba molti anni fa quando la ferita era ancora recente c’erano le magliette preferite, i braccialetti, le fotografie e tutti gli oggetti, perfino pezzi di torta, che questi giovani avevano amato in vita e che le madri, gli amici, le fidanzate, le sorelle e i fratelli portavano loro in un pellegrinaggio straziante.

È vero, come fanno notare le protagoniste di questo documentario, che le star di Hollywood, impegnate contro la guerra come Joan Baez o Jane Fonda scelsero di andare nel Vietnam del nord, ma a loro fu consentita questa possibilità. A Le Stars no. Il che non toglie nessun merito a queste celebrità, ma il dare una testimonianza della sofferenza di un popolo che dentro le sue stesse viscere si trova a dover vivere una tragedia come quella della guerra del Vietnam doveva essere raccontata, come l’hai raccontata tu. La tragedia delle famiglie di quei giovani morti o dei reduci tornati in patria che non trovavano lavoro, che erano vittime di traumi che quella “sporca” guerra aveva provocato o a cui veniva sputato addosso dopo che per obbligo avevano dovuto servire una causa che molti non condividevano affatto, meritava di essere detta in questo modo trasversale. Il fatto che venga raccontata da alcune giovani ragazze italiane che da quell’esperienza sono state segnate per la vita infatti, ha un grande valore etico. Inoltre queste donne hanno tenuto la loro storia nel dimenticatoio per troppo tempo un po’ come se fosse stata un’onta. Anche questo fa male. Si sa, le donne, molto più degli uomini, tendono a non voltarsi mai indietro, come se avessero paura di diventare una statua di sale, ma questa storia semplice e vibrante ci consente di riflettere non solo su quegli anni di grandi conflitti e contraddizioni, ma in generale anche sulla natura umana. Grazie Wilma Labate per averci regalato questo momento di riflessione!

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