Danilo Maestosi
Una meraviglia archeologica da non perdere

La Domus Positano

Scoperta da Karl Weber nel 1758, torna visitabile la magnifica residenza romana di Positano, nel 79 d.C. ricoperta dalla stessa cenere che uccise Pompei. Un luogo unico e affascinante, tra architetture e affreschi

Sopra, l’allestimento d’autore che ha completato il restauro del sito ha ritagliato due file di seggi scavati in una pietra bianca come la pomice: per secoli, dal medioevo fino all’Ottocento, contro quegli gli alti schienali, incassati tra quei braccioli consunti, sopra quei sedili forati per disperdere i liquami, i monaci dell’abazia benedettina sui cui resti è sorta la chiesa madre di Santa Maria Assunta, che è oggi l’ombelico di Positano, hanno adagiato ed esposto alla consunzione i corpi dei confratelli defunti.

Sotto, al posto del piano di calpestio della cripta, si apre uno squarcio che precipita lo sguardo verso il vortice di tinte squillanti di una stanza coperta di affreschi che si intravede appena dieci metri più in basso, tra i gradini di una passerella che porta alla balconata d’affaccio.

Sopra, la scenografia di una sorta di tribunale in disarmo sigilla il verdetto implacabile di un tempo che divora se stesso, offuscando anche il transito della morte a cui il luogo sembrava consacrato. Sotto, l’eruzione di un passato ancora più antico, l’arte della Roma imperiale, che riemerge in un tripudio di viraggi e di forme incalzante e inatteso come il sogno di un futuro più promettente, vivo ed intenso del paesaggio affollato e addomesticato della Positano di oggi. È l’impagabile spettacolo che riserva sin dall’ingresso la visita ai resti della villa romana, aperta al pubblico a venti anni dal ritrovamento dopo un lungo restauro. Una delle chicche più belle che quest’estate ci ha regalato.

È un copione che ripropone attraverso quella finestra sbilenca lo stesso colpo d’occhio, lo stesso brivido di meraviglia e conquista che deve aver provato due secoli e mezzo fa Karl Weber, l’archeologo svizzero assoldato dal Borbone che fu tra i registi della riscoperta di Pompei. Era il 1758, in una pausa degli scavi nella città vesuviana, Weber arrivò a Positano guidato dalle voci di una domus romana sepolta dalla stessa eruzione del 79 d.C. nel sottosuolo di quella ripida conca sul mare che circolavano fra gli abitanti insieme ad una serie di cimeli rinvenuti sul posto. Seguendo quelle informazioni organizzò un primo saggio di scavo proprio sotto la chiesa di Santa Maria Assunta, rimuovendo parte del pavimento della cripta e affondando i picconi nel terriccio su cui poggiava. D’improvviso, sotto quella coltre di fango e di polvere spuntò un muro tappezzato di affreschi di un lussuoso ambiente ipogeo. Weber non andò oltre. La conferma che la sua ipotesi era esatta gli bastava. Gli bastava trovare la prova che l’immensa colonna di cenere e lapilli sputata su in alto dal Vulcano ad un altezza di chilometri aveva scavalcato la barriera dei Monti Lattari e si era scaricata anche sulla costiera, forse senza seminare vittime ma portando anche lì distruzione e abbandono. Impossibile dirottare uomini e fondi dall’impresa degli scavi di Pompei che era appena partita. Così Weber fece coprire quella piccola trincea, limitandosi ad annotare in poche righe la sua scoperta su suoi diari di bordo. Una traccia sepolta e dimenticata che solo all’inizio del duemila sarebbe stata ripresa come bussola degli scavi che hanno portato al ritrovamento e poi al lungo restauro del sito, ormai identificato con certezza come il triclinium di una vasta dimora patrizia che abbracciava buona parte dell’emiciclo del golfo di Positano.

Una domus di cui continuano a riaffiorare da altri scantinati e interrati vicini preziosi reperti, architetture, cimeli. Rafforzando la suggestione se non la certezza di aver trovato anche il possibile nome del primo proprietario che potrebbe essere stato anche il suo costruttore. Quel Posides dal quale, secondo una versione diffusa, questo paese della Costiera prese il proprio nome. Un personaggio la cui esistenza è attestata da fonti letterarie d’epoca, da Svetonio, a Plinio il Vecchio a Giovenale. Si tratta di un ex schiavo di lingua greca e origine orientale affrancato dall’imperatore Claudio, che a lui e ad altri liberti di fiducia aveva affidato, per indebolire il ruolo del Senato, le cariche più importanti dei suoi 14 anni di regno, concluso nel 54 d C. Un personaggio di alto rango ed enormi ricchezze che Claudio premiò per la sua partecipazione alla conquista della Britannia. E che in tempo di pace si distinse come architetto progettando ed edificando diverse villa e impianti termali in varie zone tra Pozzuoli e la Costiera. Più che plausibile attribuire a lui, il cui nome era consacrato a Poseidone il dio del mare, la nascita di questa dimora in riva al mare. Un rifugio ideale nei suoi ultimi anni di vita, di cui non sappiamo più nulla, per allontanarsi da Roma e dai veleni e le invidie di corte dopo che lo scettro era passato a Nerone. Nel fasto che meritava ma senza dare troppo nell’occhio, in quel cono di terra raggiungibile solo via mare, senza facile attracchi per le navi, o attraverso un impervio dedalo di mulattiere che scavalcava i monti Lattari.

Plausibile che fosse ancora lì, anche se in età molto avanzata, in quei terribili giorni del ’79 d C. quando la furia del Vulcano esplose e il cielo si incendiò in una immensa nube di cenere e lapilli che oscurò tutto prima di riversarsi attorno per un raggio di decine di chilometri. Sicuramente non rimase ad assistere al disastro successivo, la cenere che si depositava sui tetti facendoli crollare per poi impastarsi con le piogge in una valanga di fango che sommerse l’intero pendio, devastando la villa, buttando giù muri, per poi sigillare ogni cosa sotto una coltre di detriti e lapilli impenetrabile per secoli.

La sequenza di questa devastazione è ancor oggi leggibile nel tappeto di relitti che i restauratori hanno voluto lasciare a vista, sotto una grande finestra di vetro: le tracce di una parete, quella di sinistra, che galleggiano con i loro stupendi affreschi e le loro partiture modulari tra cumuli di pietre, intonaci, frammenti di colonne e trabeazioni.

Quasi un contrappunto alla vista delle due pareti alterate ma rimaste in piedi per tutti i quattro metri di altezza nella loro sfolgorante bellezza. È lo spettacolo mozzafiato che si spalanca davanti ai visitatori che a piccoli gruppi vengono da pochi giorni guidati fino alla piccola passerella sospesa che fa loro da platea, cinque metri sopra il pavimento, piccole tessere di mosaico bianco incastonate tra bordature nere.

Così vicini che di quelle figure, di quelle nicchie, di quei colori che la permanenza sotto terra e la ripulitura dei restauri ha mantenuto di una straordinaria nitidezza come fossero appena stesi sulla tavolozza e non ancora sull’intonaco, sembra davvero di poter cogliere le voci e il respiro. Attori che si presentano e sfilano sul palco. Al teatro rimanda del resto anche l’impianto che i pittori, guidati da un committente ossessivamente presente alle loro spalle, ha imposto alla scena. A cucire insieme ogni riquadro c’è un grande drappo verde che si apre come un sipario e si attorciglia sulle due pareti. Un atto mimetico. Il padrone di casa che accoglie gli ospiti raccolti in quell’ambiente, sicuramente un triclinio dove consumare cena e libagioni, tirando via le tende che chiudevano il quarto lato della stanza per liberare di colpo la vista abbacinante del mare che all’epoca arrivava proprio lì davanti. A far da fermaglio a quel drappo si staglia come una polena su uno scorcio sghembo di trabeazione che ricorda la chiglia di una nave la figurina rosso arancio di un cavallo marino, le zampe impennate la coda che si agita come quella di un pesce. Se l’intero ciclo ricorda l’intreccio di tempi, dall’adagio al moto con brio, di una sinfonia, quel buffo animale è la sua chiave di violino, un dettaglio che genera e armonizza tutti gli altri abitanti del bestiario dipinto o sagomato in rilievo a stucco sulle altre pareti: amorini, draghi, cavalli alati, cocchi tirati da serpenti acquatici che si alternano ad altri animali da giardino o da allevamento.

Gli esperti catalogano gli affreschi nella produzione che caratterizza la quarta fase dello stile pompeiano. Ma sono costretti ad ammettere di trovarsi di fronte ad un unico in qualche modo mai visto prima. Mai visto un gioco così sfacciato e capriccioso di contrasti cromatici, un catalogo bizzarro di architetture realistiche e di pura fantasia, mai visti quel tendaggi che scompaginano ogni geometria. Forse, ipotizzano, il parto di maestranze locali del Salernitano, di cui però stentano a citare altri esempi. In un riquadro una scena che rimanda all’epopea omerica. Achille a scuola dal centauro Chirone, sotto gli occhi vigili della madre Teti. Tra tanti eroi il committente ha voluto scegliere quello più circonfuso di ambiguità. Eleggendo a modello esemplare il guerriero acheo più potente e temuto ma più orgoglioso ed egocentrico fin quasi al tradimento , uno che non esita a voltare le spalle ai compagni che l’hanno offeso, abbandonandoli alla sconfitta. Un combattente senza paura ma anche il figlio obbediente e mammone che non esita a travestirsi da donna per evitare l’arruolamento e assecondare i timori profetici della madre che vorrebbe evitargli la fine sotto le mura di Troia. Un incastro di metafore che sembra rafforzare l’attribuzione della villa al leggendario Posides, ripercorrendone la biografia, gli umori e persino le debolezze sessuali: il funzionario e comandante valoroso che si ritira in disparte, l’ex schiavo divenuto padrone che si trascina appresso la ferita e le inclinazioni amputate della sua condizione di eunuco, attestata dalle fonti dell’epoca. Probabilmente è soltanto la tentazione di proseguire con un altro racconto la storia che l’archeologia ha dissepolto e ricominciato a narrare.

Il congedo dal sito in altre sale dei sotterranei verso cui si risale per uscire: un campionario di pentole, stoviglie, attrezzi d’uso che raccontano una dimora che era sicuramente anche una fattoria agricola. E si affianca ad un’altra passerella di reperti che ci parlano del monastero medievale che sorse da quelle rovine e poi precipitò a suo volta in rovina.

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