Sabino Caronia
In un libro la cronaca di un anno decisivo

Il mondo nel 1947

«Forse non è l’anno che voglio ricomporre – dichiara l’autrice Elisabeth Åsbrink – ma me stessa e il dolore per la violenza, la vergogna per la violenza, il dolore per la vergogna». Quella stessa vergogna provata da Kafka alla fine del “Processo” e da Primo Levi…

Elisabeth Åsbrink ha voluto intitolare il libro al 1947 (Iperborea, 320 pagine, 18 euro) che, come è chiaramente detto anche nella nota dell’editore, è stato un anno fondamentale per la storia del mondo, anno ingiustamente dimenticato. È il mio anno di nascita per cui il titolo mi ha subito colpito. Il libro, nonostante cominci e finisca con un’osservazione critica sul tempo e gli orologi, procede con una precisione cronometrica, mese per mese, analizzando gli avvenimenti nelle diverse città del mondo. «Il tempo non va esattamente come dovrebbe», è l’incipit del libro, e la conclusione, è «Il tempo è asimmetrico. Passa dall’ordine al disordine ed è impossibile che torni indietro» e ancora: «Forse non è l’anno che voglio ricomporre. La ricomposizione riguarda me stessa. Non è il tempo a dover essere tenuto insieme, sono io, io e il dolore frantumato che provo e che aumenta sempre più. Il dolore per la violenza, la vergogna per la violenza, il dolore per la vergogna».

Il pensiero va alla vergogna che sopravvive a Kafka alla fine del Processo, a quella vergogna che Primo Levi interpreta come la vergogna di essere un uomo. L’autrice ritaglia poche pagine, fra il mese di giugno e quello di luglio, per parlare di sé, del nonno che non ha mai conosciuto perché morto in un campo di concentramento, della nonna deportata poco dopo e mai più tornata. Ma non si limita a parlare della violenza sulla sua famiglia di origini ebraiche. Ci racconta anche alcuni episodi di violenza sconvolgenti seguiti alla divisione affrettata dell’India avvenuti nei villaggi, su donne, vecchi e bambini, o altri avvenuti in villaggi palestinesi dopo la fondazione dello stato di Israele, nonostante la promessa di immunità. E racconta delle navi piene di profughi ebrei che alla fine della guerra volevano raggiungere la Palestina perché niente più li aspettava nelle loro terre di origine dalle quali erano stati deportati se non il ricordo del tradimento, della violenza e della morte, mentre vi erano restrizioni numeriche stabilite dalle nazioni vincitrici e le navi venivano tenute in mare giorni e giorni in un rimpallo di accoglienza fra gli Stati.

Il libro è estremamente interessante, fa riflettere sulla logica della politica che non ha nulla a che vedere con l’umanità e nemmeno con quello che sembrerebbe ovvio. Così sentiamo di capi palestinesi che si alleano con quegli stessi nazisti che erano stati la prima causa della nascita della questione ebraica in terra d’Israele, o che prima della guerra sempre si impegnano a sostenere l’ipotesi della nascita di una Stato d’Israele per liberarsi del protettorato inglese. E cosa dire di Paesi come la Svezia e la Danimarca da cui ex assassini nazisti vengono fatti espatriare in Sudamerica con passaporti falsi e con l’aiuto di personaggi che risiedono lì e che hanno alle spalle una lunga e nota militanza nazista o addirittura con la complicità del Vaticano o degli americani che hanno bisogno di anticomunisti e aiutano il boia di Lione a stabilirsi in Bolivia? «Nella lotta di potere della guerra fredda il nemico del nemico diventa un amico».

Lo stesso processo di Norimberga «è influenzato da potenti forze politiche» e «nell’aula di tribunale, la descrizione della guerra, dei crimini e delle vittime, si riduce da ciò che verosimilmente è accaduto a ciò che si può dimostrare. Quel che è probabilmente successo viene abbandonato al suo triste destino». È una visione pessimistica della storia quella che ne esce? No, solo un’analisi lucidamente realistica, oggettiva, distaccata – tranne forse il capitoletto centrale citato e la conclusione in cui l’autrice ci sembra mettere qualcosa di suo.

Accanto al titolo un’immagine del luglio 1947 della nave “Exodus” carica di sfollati ebrei diretti in Palestina

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