Danilo Maestosi
Al Festivaletteratura di Mantova

Frontiera Chagall

Accanto a scrittori e poeti, il festival rende omaggio a Marc Chagall, genio visionario e cantastorie: l'unico che nel pieno dei tormenti del Novecento abbia continuato a difendere la necessità di un "ritorno al disordine"

Marc Chagall. Che straordinario padrino ha scelto Mantova per battezzare e accompagnare la nuova edizione del suo festival della letteratura e insieme sigillare la parziale riapertura di palazzo della Ragione dopo un interminabile restauro ancora in corso, con una mostra che inaugura un ciclo a puntate di rivisitazione dei grandi maestri promosso in collaborazione con l’Electa. E che testimonial d’eccezione per una kermesse che esplora da tutti i versanti possibili la vitalità contagiosa che il mondo dei libri irradia verso i territori confinanti. E che quest’anno ha centrato la sua attenzione sul tema attualissimo delle frontiere.

Già, perché pochi, tra i grandi artisti del primo Novecento che hanno segnato la svolta verso la modernità, hanno contratto come Marc Chagall (1887-1985) un debito di riconoscenza così forte e prolungato con l’universo parallelo della scrittura e della poesia. Pochi altri come lui hanno dovuto attraversare per trovare la propria strada e il proprio linguaggio così tante dogane, fino a riadattare persino il suo nome: dal Moise Segall con cui viene registrato da un funzionario del municipio di Vitebsk, la cittadina della Bielorussia in cui è nato, al Marc Chagall che la Francia accoglie, adotta e incorona.

La mostra si apre proprio con la ricostruzione del suo primo soggiorno a Parigi. Chagall vi arriva nel 1910. È già un disegnatore e un pittore provetto, ma ancora invischiato in una visione della figurazione e del paesaggio incatenata alla tradizione e al romanticismo che impregna l’arte russa. Dentro, però, c’è la sua anima ebrea e il suo sguardo contadino che sgomitano per emergere, chiedono aria e voce. A Parigi, Chagall visita musei, studi, ripercorre a passi rapidissimi tutte le tappe che hanno portato i pittori francesi a oltrepassare la soglia della modernità e liberarsi delle scorie accademiche. Impressionismo, postimpressionismo, fino ad arrivare all’ultima delle avanguardie, che allora dominava la scena, il cubismo. Anche lui ne subisce l’effetto, ma senza lasciarsi contagiare dal rigore che lo ispira. Lo intriga la scansione geometrica che riduce i volumi all’essenziale, ma la cosa che più lo affascina è la possibilità di sfruttare la rappresentazione su più piani dello spazio per inseguire e catturare il moto simultaneo delle emozioni e dei ricordi che gli si accavallano dentro. L’arte, per lui, non può essere una camicia di forza, deve sprigionare libertà, dare voce alle pulsioni che si accavallano, alle storie che ad assecondarle ci raccontano e ignorano la logica del prima e del dopo, la bussola delle proporzioni e della prospettiva, ai colori che sprigionano e rivendicano e non possono essere umiliati in una tavolozza asciutta e severa come quella di Braque e del primo Picasso. E poi forme che accettano la semplificazione solo come un avvicinamento all’immediatezza dei sentimenti e delle radici popolari, ma si abbandonano alla fantasia , rigenerante come un atto di fede, e non alle regole della ragione.

Il suo è un talento anarchico che altri pittori della Parigi di allora guardano con diffidenza. A volte persino con disprezzo. L’amicizia di Sonia e Robert Delaunay è quasi un eccezione. A spalancargli le porte è invece l’ammirazione dei poeti e degli scrittori. Blaise Cendrars, Apollinaire si lasciano conquistare dai suoi quadri. Ai quali rubano versi e ispirazione, ripagandolo con una promozione attiva che lo introduce nei giri che contano, gli spianano la via del successo. È Apollinaire a benedire con parole entusiaste la grande mostra a Berlino che lo consacra come un nuovo faro della pittura. È Cendrars a raccomandarlo al collezionista Vollard che, affascinato dal suo talento fuori canone, gli affiderà a più riprese il compito di illustrare una serie di classici da pubblicare in confezioni d’autore o mettere in vendita in cartelle numerate. Le anime morte di Gogol, la Bibbia, le Favole di La Fontaine riscritte da Chagall in immagini stupefacenti, capolavori di un genio senza briglie, che questa mostra raccoglie e ripropone integralmente in tre diversi siparietti con cui inizia il percorso.

Un’avventura, quella con la grafica, che inizia a partire dagli anni Venti. In mezzo c’è il drammatico intermezzo della guerra che lo ricaccia in Russia e poi l’esperienza esaltante della rivoluzione che lo cattura e lo sprona. Lavorerà prima nella sua Vitebsk. Poi a Mosca, dove  gli viene affidato il compito di fondare e mettere in moto un nuovo piccolo teatro per la comunità ebraica. Di quell’impresa, che a poco a poco lo porterà a misurare sulla propria pelle la difficoltà di adeguarsi alla spinta degli apparati e dei gruppi che si contendono lo scettro dell’innovazione e della trasformazione sociale, resta un ciclo di pannelli dipinti a tempera e acquarelli creato da Chagall per tappezzare l’atrio del teatrino. E oggi conservato dal museo Tret’jakov di Mosca da cui – concessione piuttosto rara – è arrivato in prestito per questa mostra. Giusto dedicargli un’intera sala e un trattamento da ospite d’onore. Perché quell’insieme di tele non è soltanto uno specchio fedele della fase creativa che Chagall sta attraversando, un equilibrista sospeso sul filo che corre tra Oriente e Occidente, e delle radici profonde della sua anima ebraica ma una sorta di singolare monumento dei processi che dominano e rimescolano la scena dell’arte dopo la grande fiammata delle avanguardie del primo decennio del Novecento.

In apparenza il taglio si rifà alla lezione cubista, lo spazio e le figure inscritte dentro volumi geometrici che si accavallano in più direzioni, scomponendo e segmentando la figura. Ma l’impianto è solo una chiave per liberare una frenetica rincorsa allo scorrere intrecciato del tempo tra passato, presente e futuro dove le immagini galleggiano come schegge di ricordi e profezie, dove realtà e fantasia si alternano In una miscela che rende tutto possibile. Altri artisti che hanno portato la fiaccola dell’avanguardia, Picasso per primo, imboccheranno dalla fine degli anni Venti, la strada del ritorno all’ordine. Chagall è e resta un predicatore del ritorno al disordine, un poeta dell’eccezione e dell’artificio. Abitante di un mondo dove gli innamorati decollano verso il cielo, violinisti con il volto ghignante distillano musica sui tetti, capre, mucche a altri animali irrompono sul palcoscenico. La sua Vitebsk conserva lo stesso respiro di storia ed epopea della Macondo di Garcia Marquez. Una pittura da cantastorie.

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