Ella Baffoni
Al Festivaletteratura di Mantova

Favola Celestini

Nella città invasa dalla cultura, Ascanio Celestini presenta il suo catalogo di sogni: un'umanità fantastica costruita a partire dai pupazzi di Giovanni Albanese

Mantova si tinge d’azzurro, come tutti gli anni di questa stagione, per il Festivaletteratura. Azzurre le magliette dei volontari, ragazzi che si occupano della logistica, dell’accoglienza, delle informazioni. Azzurri i loghi, azzurri i totem che segnalano i luoghi che ospitano gli eventi, disseminati in tutta la città. Duecentoquattro eventi ufficiali in cinque giorni, a cui si aggiungono interviste collettive e presentazioni private di libri, e una splendida mostra su Chagall a Palazzo della Ragione. Più del doppio gli ospiti degli eventi, scrittori, critici, scienziati. Una raffica di possibilità fotografata dalla rassegna stampa del giorno, una miriade di articoli, quasi nessuno sullo stesso argomento: interviste, incontri, ragionamenti sull’editoria, a segnalare la grande libertà di scelta, e i suoi rischi. Ma ci sono eventi, invece, dove il rischio di scelta non c’è e l’autore è una garanzia. Ascanio Celestini al Teatro Bibbiena – una delizia secentesca, delicato e scomodo ma bellissimo – ha offerto ieri sera una delle sue performance più riuscite, Un gioco ri-creativo.

Punto di partenza L’armata dei senzatetto, il libro allestito in collaborazione con l’artista Giovanni Albanese. Albanese crea singolari pupazzi, assemblando rifiuti a volte contesi con i nomadi, e dando loro occhi e gambe. Operazione discutibile se resta nel recinto astratto dell’arte. Invece l’artista Albanese ha invitato Ascanio Celestini nel suo laboratorio, gli ha presentato i suoi lavori, e l’artista Celestini è riuscito a dargli anima. Costruendo su ciascuno una storia, un pensiero, un’intenzione.

Ecco dunque l’armata dei senza tetto né legge, che sfida anche quelle fisiche. Ecco il Grillo giapponese, la Guerra in scatola, il Cazzotto che non ha testa né cuore, Melanina e antimelanina. Ecco Uno che fa girare le palle, ecco il Cavaliere, ecco il Cecchino, e Pantani destinato alla sconfitta. Ecco i Comunisti in vacanza, le falci che non incrociano più i martelli a riposo. Ecco il Macio, ecco il Giudice, ecco l’Antivitalista che perde tutte le guerre. Ecco Uno qualunque, uscito a passeggio senza ombrello e senza cappello e anche sulla testa ci sarebbe da qualcosa da ridire.

Sono rifiuti, non lo sono più. Assemblati così da Albanese, con Celestini (insieme nella foto) ritrovano una storia, un respiro. «Uno qualunque – affabula Celestini – ha un cavo elettrico, Quando lo si inserisce nella spina illumina le cose attorno a sé. E questa non è una cosa qualunque».

Tredici, eccolo. Tredici come i dieci comandamenti, e quelli dell’ultima cena. Tredici perché dentro il Tredici ci sono tutti i numeri che c’erano prima. VotaAntonio (nella foto accanto al titolo) ha una tromba da antico giradischi come testa, e la metafora è evidente, ai nostri giorni. E ci mostra, dice Celestini, che siamo tutti pazzi, che la pazzia è dentro di noi e in questo, forse, non c’è nulla di male ma forse qualcosa sì, dipende.

Poi c’è Quello che fa i buchi nell’acqua: lavora, lavora e poi, al settimo buco, si accorge, moderno Sisifo, che l’acqua non è più bucata di quando aveva cominciato. Perché l’acqua si buca solo quando accoglie il trapano, poi il buco scompare. Qui la fisica s’inganna solo con l’intenzione e la cocciutaggine, ma anche in questo c’è il suo bello.

In questi tempi di frontiere e negazione dell’umano nell’altro da sé, in questi tempi in cui la legalità serve a sgomberare i senza casa senza alternative ma non serve a liberare le strade e i depositi dalla spazzatura, la ricerca dell’umano dov’è insospettato, la ricerca di insegnamenti e storie nell’inanimato è cosa preziosa. Oggi che le parole definiscono e ritagliano fuori – i profughi, i clandestini, i migranti, i rom: cioè non-noi, noi sì che siano cittadini, quelli sono spazzatura – per escludere e vessare, questi pupazzi di rifiuti negano il rifiuto, diventano amabili e amici.

Si ride, tanto. Si pensa, anche. Si accendono luci, infatti. Si esce dal teatro più allegri e più ricchi. E, soprattutto, quello che sembrava tollerabile è diventato intollerabile. Speriamo che duri.

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