Nicola Fano
Su “La funzione moderna dell’arte”

Impara l’arte

Dario Evola, nel suo saggio, ricostruisce la storia e la funzione estetica e sociale della trasmissione dell'arte (tramite musei e accademie). Il ritratto di un percorso secolare (dagli Illuministi al Novecento) che si è interrotto

«L’artista deve essere comunicativo, deve evolversi dalla scarsa cultura e soprattutto deve essere “sperimentale” in modo da creare una inedita relazione tra arti e manifatture»: tenete a mente queste parole. Sono state l’imperativo categorico della cultura e dell’arte (intesa come bene collettivo) del Novecento e sono mutuate dalle intuizioni di Diderot e degli illuministi: un filo rosso che si srotola per oltre due secoli. Eppure, oggi, queste parole – tratte dal bel libro di Dario Evola, La funzione moderna dell’arte (Mimesis, 256 pagine, 26 Euro) –sottolineano ciò che non siamo; che non siamo più. Il filo rosso è stato reciso. Il libro di Dario Evola, non a caso docente di Estetica all’Accademia di Belle Arti di Roma, infatti, va letto proprio per capire questo passaggio terribile: la generazione che oggi s’è fatta classe dirigente è la prima, da oltre due secoli, che si occupa di distruggere, invece di costruire. Questo saggio è dedicato alla fase precedente: si occupa di raccontare e spiegare la lunga costruzione dell’arte come «industria umana». E lo fa seguendo due direttrici: da un lato, la nascita e lo sviluppo del concetto stesso di museo (inteso come luogo di conservazione ed esposizione); dall’altro, lo sviluppo delle accademie d’arte (quei luoghi in cui la creazione si faceva e si fa trasmissione di idee e di tecniche concrete).

Oggi, 2018, non solo è saltato il rapporto stesso tra queste due “istituzioni” (accademie e musei), ma addirittura ne viene messa in dubbio la funzione sociale: arte e cultura sono «oggetti superflui», «inutili al popolo» e come tali vanno abbandonati a se stessi quando non combattuti direttamente. Ebbene, qui Dario Evola – che non parte da questa considerazione ma indirettamente la adombra ponendo poi a suggello del suo ragionamento – compie il percorso storico e estetico che ha condotto l’utopia illuminista del primato della ragione (e dell’educazione dell’uomo nuovo) all’illusione di un suo inveramento nelle ondate d’avanguardie che si sono succedute nel Novecento. Naturalmente (e sono pagine da leggere con gran gusto), l’autore parte dal vulnus contraddittorio della faccenda: il primo “museo” nasce dallo sfruttamento di una ruberia. Quella perpetrata dall’inglese Lord Elgin ai danni del patrimonio della Grecia antica quando, all’alba dell’Ottocento, trafugò le meraviglie dell’Acropoli per venderle in patria. Furto o spirito di conservazione? In fondo, la pirateria di Elgin ha consegnato al futuro (e al restauro) un monumento di bellezza che l’impero Ottomano, nei cui domini c’era anche Atene, aveva trasformato in una discarica di materiali bellici. Questo per dire che il percorso storico analitico di Evola non dimentica mai il mercato, il tirante economico che sottende anche lo sviluppo dell’arte. Al punto che l’autore arriva a denunciare nell’oggi il passaggio finale nel quale il mercato l’ha conquistata totalmente e definitivamente: «La funzione dell’arte nel contemporaneo non è più quella della produzione del bello. Oggi il bello si trova dappertutto. Paradossalmente tranne che nell’arte. (…) L’artista, affrancato dalla condizione del mestiere, divenuto professionista dopo il XVIII secolo, emancipato anche dal dominio delle Chiesa, del principe e della borghesia, esercita l’arte attraverso il libero mercato e il libero esercizio. L’artista emancipato trova una autonomia di leggi, di valori e di ricerca, ma dipende sempre più dal mercato».

Con queste considerazioni si chiude il saggio di Dario Evola, facendone un grido d’allarme. Quanto più l’estetica amplia i suoi campi d’applicazione (tutto è estetica, ma vera o falsa estetica?) tanto più la funzione stessa dell’arte ne risulta depauperata. Il problema non è che essa ha perduto sacralità (c’è una intera scuola di pensiero che ha predicato il concetto di museo pop), ma che ha smarrito cittadinanza, dignità. L’uno vale uno d’oggi non è quello degli Illuministi: oggi nega specificità e competenze, ieri segnava l’obbligo sociale di formare ciascuno fornendo a tutti le medesime opportunità di accrescimento. Anche culturale, ovviamente, grazie ai musei e alla straordinaria opportunità della riproducibilità tecnica (Benjamin, ovviamente, torna spesso nelle pagine di Evola). Come se ne esce? Occorre tornare alla formazione, conclude l’autore: «La sfida dell’insegnamento è quella di comprendere il presente e allo stesso tempo di disporre di strumenti per una interpretazione capace di esercitare la critica del giudizio». Ma ci riuscirà continuare a sostenere questa sfida?

Facebooktwitterlinkedin