Giuliano Capecelatro
Alle radici della neolingua digitale

Entelechia o anarchia?

I "correttori automatici" dettano legge: dovrebbero essere dei facilitatori della comunicazione, e invece diventano una trappola per la lingua, riducendo a termini banali ciò che invece dovrebbe essere complesso

A uscirne con le ossa rotte è soprattutto la filosofia. Ha un bell’essere catafratto, come lo definiscono quelli del mestiere, cioè armato fino ai denti e quindi, in teoria, pronto a rintuzzare qualsiasi aggressione. Nell’arengo digitale, il povero epicherema sparisce, viene annullato, negato senza mezzi termini, e trasformato in un più digeribile differenza. Eppure avrebbe quarti di nobiltà da far valere, un albero genealogico che risale ad Aristotele. Rampollo della schiatta illustre dei sillogismi, benignamente consentirebbe, e mica è da tutti, che le sue premesse venissero analizzate e dimostrate. Ma il tablet non si lascia commuovere: epi…che? Non diciamo eresie: differenza è la parola, non si discute. Non se la passa meglio il suo schizzinoso fratellino di latte, l’entimema, che, al contrario, proprio non vuol saperne di dimostrazione per le sue vaghe premesse. Punito nel girone digitale da un protervo enfisema, nelle cui affannose sembianze entra suo malgrado.

Dura la vita dei lemmi tra le spire impalpabili degli indefessi intermediari della comunicazione: tablet, iphone, smartphone. Ad ogni digitazione, ognuno viene sottoposto a scrupolosa indagine critica, sminuzzato e, se del caso, rigenerato. Corrusco? Guarda un po’ cosa ha scritto quest’animale, bofonchia l’irriverente strumento e subito corre ai ripari. Cernusco, ecco cosa voleva dire il babbeo, magari vagheggiava una gitarella in quelle amene contrade sulle rive del Naviglio.

E sulla filosofia, il cui lessico viene storpiato e normalizzato senza complimenti, si accaniscono con feroce sadismo. Uno studioso, un appassionato, digita il vecchio e glorioso entelechia, reso celebre dal solito Aristotele e poi rispolverato da Leibniz per le sue monadi senza finestre. Contrariato e inflessibile, il tablet lo aggiusta in anarchia. Ma ce n’è per tutti. Persino la cosmopolita tazzulella dei napoletani, elevata ai fasti dell’arte da Pino Daniele, elemento indispensabile per il rito del caffè, deve lasciare il campo ad un’inopinata, e alquanto incongrua, gazzella.

Tant’è. Questi quotidiani facilitatori delle relazioni umane dettano legge. E affidano il lavoro sporco – l’eliminazione dei termini sgraditi – al cosiddetto correttore automatico. Che ne combina di cotte e di crude a ogni latitudine. Uno vuol segnalare che è preoccupato per il suo amico pletorico, ma l’infernale aggeggio trasporta entrambi a Portorico. Se poi si vuol sottolineare un pleonasmo, ci si trova a fare i conti con un incomprensibile ordinando. Si prova a mettere l’accento sul carattere atrabiliare? Lo si ritrova stravolto sotto forma di strabiliante. Grande è la confusione sotto il cielo…

Tipi strani, questi correttori. Hanno i loro tic, le loro manie, avversioni radicate, ma soprattutto categoriche certezze. Eterodosso, ma de che? Tu volevi dire semplicemente pettirosso. Certezze che propinano all’incauto utilizzatore finale dei mille trappoloni che scandiscono la giornata tessendo e ritessendo la trama delle relazioni. Ma anche le loro timidezze. Colpisce l’incertezza con cui si muovono come tra Scilla e Cariddi quando ci sia di mezzo la “e” nelle due possibili versioni, semplice congiunzione o verbo con tanto d’accento. Allora le certezze barcollano, ed ecco che il verbo diventa congiunzione e viceversa; e se capita l’indeterminato ce accanto al verbo, tipo ce n’è, su due piedi viene riconvertito in forma verbale: c’è.

Va detto, a loro onore, che, in controtendenza, i correttori non se la cavano malaccio con i congiuntivi, anche se di tanto in tanto incespicano. Non tanto con le desinenze, scrupolosamente rispettate, quanto proprio con il significato, che in alcune circostanze alle loro orecchie deve risultare misterioso. Soccombessimo: silenzio imbarazzato, poi ecco comparire un allucinante disconnessioni, specchio, forse, del desiderio inconfessato del correttore di gettare la spugna. Ma come metterla con attraessimo, condannato al ruolo di superlativo assoluto con attesissimo? Incomprensibile la capriola logica con cui una desuetudine approda nel suo opposto consuetudine. Un barlume di senso, invece, conserva il passaggio da valetudinario ad abitudinario, come a dire che il soggetto in questione ha l’abitudine di star male.

Il tono è quasi sempre quello di una maestrina dalla penna rossa, che distribuisce bacchettate sulle dita agli alunni somari. Spesso verga proprio un frego rosso sotto il vocabolo inquisito. Ma il più delle volte lo cassa e basta, per sostituirlo con quello ritenuto giusto. Difficile entrare nei circuiti cerebrali del correttore-maestrina. A volte fa mostra di verginale pudore e allo scabroso prosseneta fa subentrare un inutilizzabile presentata. Talora si presenta come uno spirito libero, pronto a farsi beffe di culti e liturgie, preferendo a un santo archimandrita la più pragmatica accomandita. E persevera nella sua opera dissacratrice conferendo al potenziale lirismo e alla magia di night l’atmosfera peccaminosa e densa di fumo di nightclub. Quindi dà i numeri, individuando in un tipo eteroclito un incallito consumatore di steroidi. A mal partito con lalomane, si inventa Aloma e, una cara amica che fa sempre piacere salutare, ma che c’entra come i cavoli a merenda, e per di più non parla neppure tanto.

Nessuno grida al complotto, ci mancherebbe. Però… però in tutto questo grammelot trasuda il supremo disprezzo che la tecnologia trionfante riserva ad ogni sapere che oltrepassi l’orizzonte della pura fattualità, su cui fa cadere il marchio d’infamia della metafisica. Così, a furia di “taglia e scolla” digitale, si fa strada un dizionario ridotto, per successive sottrazioni, ai minimi termini, imperniato sulla soppressione, la cesura e la censura. In perfetta, e un po’ inquietante, sintonia con una temperie storica in cui l’ignoranza ha assunto il valore di una medaglia al merito.

Ecco, allora, far capolino l’ombra nera dell’orwelliana neolingua. Un vocabolario scarno ed essenziale si accredita come il veicolo principe per giungere al pensiero unico, codificato e rigidamente controllato, come avviene nel dominio del Grande Fratello. La ricchezza del vocabolario è specchio e fomite della ricchezza intellettuale. Ce n’è (per carità, correttore!, non venirtene fuori con c’è n’è) quanto basta per dar fiato ed argomenti ad un’Internazionale Luddista.

Ah, sbotta superba la compagine del Technology Forever, qui casca l’asino! Il correttore automatico è un semplice strumento, un innocuo ausilio. Se disturba, basta disapplicarlo. E poi, se uno sta attento e rimuove l’inopportuna correzione, accoglie amorevolmente nel proprio seno la new entry, si tratti dell’ostico, e diciamolo pure: non poco antipatico, epicherema o del desueto (sì, proprio desueto, non consueto) allobrogo, scherzosa indicazione etnica per i piemontesi.

Tutto vero. Ma quanti hanno voglia, tempo, competenza per intervenire? E quanti sono presi a tal punto dalla febbre della comunicazione in tempo reale, da non badare a quel che nasce sotto le loro alacri dita? Correggere i correttori è possibile, certo. Ma il solco è tracciato. E la superfetante tecnologia non manca di spade per difenderlo.

Lo capirebbe anche un bambino. Non è indispensabile conoscere il buon vecchio epicherema. Probabile che oltre il 95% degli italiani non sospetti né mai sospetterà che un simile vocabolo si aggiri, come uno spettro, per monti, valli e coste del Belpaese. E padre Dante ha insegnato ai suoi connazionali quanto son difettivi i sillogismi. Ma è importante che ci sia, venga registrato e dotato di un certificato di esistenza in vita, in un vero, onesto dizionario senza grilli per il capo, da sbattere in faccia agli zelatori (via, via: tagliamo, leviamo, aboliamo, depenniamo, facciamo tabula rasa), che pochi non sono, della neolingua, o di qualunque pasticciaccio brutto le possa assomigliare.

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Nelle immagini, tre opere di Carla Accardi.

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