Daniela Matronola
A dieci anni dalla morte

David Foster Wallace, assalto alla realtà

Ritratto di David Foster Wallace, scrittore fluviale, devoto ai particolari (soprattutto quelli della vita) e sempre fedele alla sua idea di "narratore/scienziato", ossia colui che è chiamato a fare diagnosi, non vere e proprie creazioni

Mercoledì 12 settembre 2018: 10 anni dalla morte di David Foster Wallace. Sua moglie, Karen Green, lo trovò suicida nel portico di casa. Tutto il mondo accolse questa notizia con sgomento ma non con totale sorpresa. La parte tremenda della notizia era che DFW non avrebbe più pubblicato quei suoi libri mastodontici e articolati, ricchi di dettagli stranianti a dispetto del simulato realismo. In realtà non è stato poi cosi: c’è, a quanto pare, ancora molto materiale già scritto e forse ancora non del tutto organizzato che nelle sapienti mani dell’editor Michael Pietsch (Bonnie Nadell è invece la sua agente), piano piano, produrrà una serie di opere rimaste incompiute: la prima di queste è stata The Pale King, Il Re Pallido, prima sua opera uscita postuma, ritrovata proprio da Karen e Bonnie tra le carte di DFW.

Una funesta ricorrenza onorata a Roma con una lettura fiume (oggi dalle 17 alle 24, sulla carta) in una libreria del terzo municipio dove agisce da qualche mese come assessore alla cultura Christian Raimo, scrittore e docente di filosofia, organizzatore della kermesse.

La prima lettura-fiume, tenuta al Politecnico Fandango (Roma-Flaminio) nel weekend immediatamente prima di Natale del 2000 (15/16/17 dicembre), fu da Infinite Jest, romanzo-monstre di David Foster Wallace, tradotto da Edoardo Nesi con Annalisa Villoresi e Grazia Giua (1440 pagine nella versione italiana, con un apparato di note informative, e narrative – risorsa in genere tipica dei saggi e degli studi e non dei libri di invenzione): 72 ore filate in cui si avvicendarono molti lettori, anche io fra questi. Lessi la domenica mattina intorno alle 9:30, con poca gente in sala (la maggior parte aveva fatto nottata lottando col sonno), e dopo il turno, onorato con qualche incertezza da sfinimento, ottenni un doppio premio, un bel caffè potente e la mia copia omaggio del tomo (che avevo già letto in originale).

Il sabato, verso sera, era toccato a una nota attrice che si trovò a leggere certe pagine in cui l’eroe, chiamiamolo così, del romanzo, Hal (come Hal9000, computer in esaurimento in 2001 Odissea nello Spazio) Incandenza, in una partita di tennis (il tennis è il grande fattore esponenziale di questo libro), si trova nell’incresciosa situazione di doversi concentrare su scambi estenuanti e però nel contempo dover trattenere un peto. Come tutti sappiamo, David Foster Wallace non era uno che abbandonasse i dettagli tanto facilmente, non sbrigava certo la vita dei dettagli con pratiche veloci, per cui si trattenne sulla questione lungamente proprio perché il punto era questa lotta interiore: occasione ghiotta, su uno squisito piano narrativo, di far ben funzionare la situazione e i suoi elementi costitutivi senza reticenze. Lei, la lettrice, fu molto professionale nonostante fosse là in veste amichevole e non batté ciglio, ma poi, finito il suo turno di lettura (che, inutile dirlo, fu un’escalation e un’apoteosi), nel rinforcare le maniche del cappotto disse, sconfortata: «Certo, potevate dirmelo che mi sarebbero toccate proprio queste pagine, eh! Se è stato uno scherzo…». Non uno scherzo ma una coincidenza: le pagine furono intense e divertenti, da sbellicarsi.

E, a distanza di tanti anni, quel passaggio appare sempre più significativo di come fosse David Foster Wallace come uomo-scrittore o scrittore-uomo: un mitologo e un dissacratore, uno che viveva nel flusso quotidiano della letteratura e ogni giorno studiava e accumulava dati e conoscenze, e teorie della conoscenza, e un attimo prima di cedere ai suoi miti letterari o ai dati reali smontava tutto per (farci) scoppiare in una fragorosa risata. Lo dice quell’episodio e lo dice quel titolo, Infinite Jest (Burla Senza Fine), che proviene direttamente dall’Amleto di Shakespeare. Ricordate? Amleto, il principe più sfinito della storia della letteratura, sempre annoiato, ancora più esausto confuso arrabbiato quando scopre che una cosetta da fare gli toccherebbe: nientemeno che ripulire il marcio in Danimarca.

Un antieroe per natura costretto a riprendere tra le mani le sorti del suo regno.

Cosa ci rimanda Wallace di Shakespeare? Una sensazione, un sospetto, che diventa dato della conoscenza: cioè che tutto ciò che ci capita è frutto di incroci bizzarri che nessuno di noi riesce a pilotare, ancor meno quando i nostri sforzi convergono proprio sul tentativo di controllare fatti e persone, paure sentimenti e tensioni. Tirare scherzi è in fondo tipico del destino, e il lato comico anzi grottesco, spesso involontario, che l’antieroe vi gioca è tanto più esemplare quanto più egli è destinato a finir male o a fallire o, tutt’al più, a riequilibrare le sorti …in limine mortis.

È anche una lotta tra fatti e apparenze, tra percezione e dati.

Questo è un fulcro robusto dell’invenzione wallaciana. Intanto la tendenza all’accumulo. Una dote naturale: classificare, catalogare, elencare, concentrare. Dati su dati. Fatti su fatti. Profili su profili. Chiose su chiose. Annotazioni su annotazioni. È come se il caos fuori premesse sull’individuo e pretendesse d’essere messo a fuoco, in ordine, per poi ricevere una forma, non importa quanto semplice o (viceversa) complessa, affastellata, polimorfa e vascolarizzata. Come neoplasie. In realtà si tratta di diagnosi, non di creazioni: si tratta di riconoscimento di forme, di documentazione, direi di accertamento, di modelli di sviluppo.

Quando inseguo tutto questo nelle pagine di David Foster Wallace, mi torna in mente Don Gately [protagonista di uno tre filoni narrativi di Infinite Jest, consigliere e residente, ex tossicodipendente da abuso di Demerol, di Ennet House, il centro di recupero contiguo alla Enfield Tennis Academy]. Mi torna soprattutto in mente quella sua espressione, quando veniva meno, in cui, invece di dire che cadeva sul pavimento, diceva che era il pavimento a venirgli incontro, a sbattergli contro, a avventarglisi addosso. Uno stoico dopotutto, il caro Don, dal momento che, conoscendo la propria debolezza al Demerol, in una situazione di gravissimo e continuativo dolore da trauma, rifiuta gli antidolorifici di origine oppiacea (gli unici efficaci) pur di non ricadere nel proprio vizio. E la sua frase è la chiara enunciazione di una percezione che ci appare distorta ma risulta precisa: spia portentosa per noi segugi alla ricerca di tracce, sempre molto mimetizzate, dell’autore. Ecco, quella frase la dice lunga sulla sensazione che, nei suoi confronti di accumulatore e rubricatore, Wallace aveva circa l’assalto della realtà. Un enunciato che è la voce disperata e arresa di Wallace, proprio Lui in Persona, che riesce ad affiorare, sfuggita all’iperfiction. Siamo direi un punticino oltre il caro bardo che seguendo il corso dell’Avon si installò a Londra e vinse persino gli ispidi favori della Regina Vergine oltre a ottenere l’amicizia del fratello maggiore Christopher Marlowe, tragediografo e spia (pare proprio): il Cigno di Stratford tendeva a sospendere la verità in gocce di poesia, paradossi o boutade da sciogliere, a volte, David Foster Wallace invece trova sempre il modo di definire enunciati, invenire brani di verità, formulare pure rivelazioni. La differenza che corre tra il poeta e il prosatore, fatta salva la poeticità del testo, essenziale asciutto necessario. Pensate, David Foster Wallace, pur essendo stato fluviale e digressivo, non credo abbia scritto mai pagine inutili: l’elefantismo del testo, sempre, pur concorrendo per qualcuno alla sua osticità, e indulgendo nel tedio, non può mai dirsi esorbitante.

Un esempio su tutti? The Pale King (Il Re Pallido), mucchio di testi attorno alle duemila pagine di materiali raccolti dall’autore a partire dal 1997, all’indomani di IJ, cui si è dedicato l’editor Michael Pietsch tirandone fuori, nel 2011, il romanzo postumo asciugato a meno di seicento pagine. Tutte SUL tedio, sulla fatica inutile e precisa di controllare i cittadini americani attraverso meticolose raccolte di dati fiscali, un lavoraccio svolto dagli impiegati della Agenzia delle Entrate [IRS] di Peoria (Illinois), i quali, sono i RE DEI DATI ma sono PALLIDI, SFATTI, e soprattutto sono uomini comuni, individui ordinari, qualche volta mediocri, a volte un po’ schifosi, come nella grande tradizione impiegatizia della grande tradizione letteraria. A leggere certi ritratti di questi impiegati che vivono solo nelle pause in cortile quando fumano fuori da questi edifici mastodontici e tutti uguali, burocratici, viene in mente Kafka subito, ma molto anche Gogol’ o Checkov, e persino il Cerami di Un borghese piccolo piccolo (le scaglie di forfora sulle spalle del capoufficio, la sua calotta unta di capelli): qui ci sono il sudore nevrotico o gli eczemi, gli sfoghi rivoltanti.

L’alienazione di questi poveri cristi di cui L’Autore, che fa cou-cou nel capitolo 9, scopre l’esistenza in una sua breve esperienza lavorativa, è punteggiata dall’apparizione di insegne pubblicitarie che campeggiano nei prati spelacchiati lungo la statale che costeggia gli edifici della IRS: costoro, esautorati della propria integrità mentale dalla routine del proprio lavoro, sono anche conculcati nelle loro malferme volontà personali da slogan giganteschi come IT’S SPRING, THINK FARM SAFETY che fa il paio con la formula, IL RE PALLIDO, buona a innalzarli, gravati come sono da miliardi di dati, a divinità della conoscenza e del controllo, per rispedirli subito al pallore malato dei volti, alla irrisorietà di individui asserviti, ridotti a schiavi o insetti (riecco Kafka). Torniamo anche dalle parti di Shakespeare, e di Amleto, e recuperiamo la nota immagine siglata dalla frase “the pale cast of thought” (la pallida cera del pensiero) contenuta nel più famoso soliloquio/monologo al mondo, in cui si insiste su indeterminatezza e determinazione, su vulnerabilità –o meglio esposizione al destino– e opacità dell’animo.

Certo, per sollevarsi e alleggerirsi da tanto peso di dati fatti documenti, per interrompere la percezione continuativa del mondo reale in modo capillare e l’attitudine naturale alla raccolta, una vera dannazione, l’unica è pensare a-, e raccontare analizzare celebrare-, chi della leggerezza e della naturalezza fa mostra a livello divino, mitologico: Roger Federer e il suo tennis estatico. C’è un segreto che Wallace ha provato a indovinare smontando il giocattolo come fanno i bambini, ricorrendo a modelli matematici, ad analisi raffinate di tattica e tecnica, per rubarlo, o calcarselo addosso: la danza di questo tennista che è un santo, e come San Filippo Neri va in estasi: in campo semplicemente non tocca terra. Un sogno, che sconfessa tutte le schiavitù raccontate da Wallace sul bersagliamento subito ad opera della realtà: una sorte speciale riservata solo ad alcuni. La massa è calamitata a terra dal piombo, brancola nella confusione. Allora, tanto valeva chiudere la faccenda anzitempo.

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