Giuliano Compagno
Muri che s'alzano, ponti che crollano

Genova. Per noi

Invettiva contro un falso popolo che non sa essere comunità; che chiacchiera querulo citando poeti che non conosce o princìpi che calpesta. Insomma, gli italiani (quelli che siamo diventati)

Nella memoria famigliare, a Genova transitano quintali di pescestocco importato dalle isole Lofoten. E lassù che volano mio nonno Domenico e mio zio Beppe per avviare e consolidare un commercio fiorente. Il vecchio nome della ditta “Albacora” lo immagino inscritto su container e su magazzini in attesa di camion e di navi. E a Stamsund ci finisce mio cugino appena sedicenne, per via di una bocciatura a cui era seguita una classica sentenza vecchi tempi: «Non ti va studiare? Lavora!». Un giornalista del Secolo XIX lo andrà a intervistare tra i geli norvegesi (e tra parecchie biondine), perché alla fine dei Settanta una famiglia con delle regole certe cominciava a essere una strana eccezione.

Da questa piccola saga ittico-affettiva avevo immaginato che a Genova il lavoro fosse una sorta di silenzioso esempio, e che su ciò si fondassero dei rapporti umani importanti. Il grande amico con cui si andava a cena era anche un sodale in affari, e di affari si parlava spesso, per poi litigare su chi avrebbe pagato il conto, giacché offrire un pranzo non era una sciocchezza ma un gesto autentico. Non avevo nemmeno mezzo parente che non vantasse origini siciliane, eppure tre cugini carnali su cinque sarebbero nati a Genova, eppure mio nonno riposa a Staglieno e mio zio nel cimiterino di Savignone, che è nei pressi. Ciò rileva di una connessione che non solo mi appare in linea retta con la geografia ma persino in tutta coerenza con la comune insularità dei due luoghi.

Perché Genova è terraferma per caso; in realtà è un’isola intrattabile, come nessun’altra apertamente ostile al mondo che le ronza attorno e che giudica ipocrita, come nessun’altra insofferente a quei rompicoglioni di turisti (milanesi imbruttiti alla Salvini) che ogni estate ne saccheggiano la riservatezza facendo incetta di luoghi comuni e mai scorgendo un’ombra delle remote bellezze dei suoi paraggi. Anche per respingere quest’orda di arricchiti ignoranti, la città si è via via arroccata dietro le sue mura immaginarie, dando in usucapione le “Santa” e le “Portofino” ai commendatori Diciottometri che si erano “evoluti” dal Mar Adriatico. In fondo, la contestazione di Fabrizio a Giuseppe De André rimandava al bisogno di un giovane tormentato poeta di non confondere la propria solitudine culturale con la desolante socialità dei nuovi imprenditori, né la propria ricchezza interiore con una circolazione di denari che erano il frutto, non già di risparmio e di lavoro ma di speculazioni e di investimenti. «Genova è anche gli amici che da lontano ti vedono crescere e invecchiare, per esempio i pescatori, che hanno la faccia solcata da rughe che sembrano sorrisi e, qualsiasi cosa tu gli confidi, l’hanno già saputa dal mare». La conoscenza dei luoghi!

Questa miseria di queruli politicanti che un luogo lo ribattezza “territorio”! Territorio di retorica, di favori, di conquista… No case o pensieri, no vecchie fotografie o bambini, no una chiacchiera con un volto nuovo o un litigio con un qualsiasi stronzo che non rispetta niente… Ed è soltanto qui l’indicibile causa di questa ennesima tragedia di Genova, sin dagli anni Sessanta maltrattata come una città industriale qualsiasi, appesantita da infrastrutture figlie di una megalomania criminale che la andavano respingendo verso una terra malferma o inesistente. Assediata infine dal trasporto su gomma e dal monopolio di un marchio automobilistico a cui questo paese ha pagato un prezzo abnorme e indecente, senza un progetto che non obbligasse a raddoppi di corsie, a motori inquinanti, a sfregi paesaggistici e faunistici, a gallerie infinite e a ponti come questo, che ha fatto volare via esseri umani e si è schiantato su gente resa inerme e acritica anche da un’informazione più o meno azzerata.

Si cercano colpevoli tra i primi nomi e tra le prime cariche societarie che vengono in mente. In automatico. Sarà pure giusto e ovvio ma questo fa riflettere sulla pochezza della società italiana degli ultimi cinquant’anni. Ancor più grave delle ruberie e della delinquenza è stata la stoltezza di una generazione tanto gaglioffa e stupida da non regalare alcun aggettivo qualificativo al termine “progresso”, così rinunciando a ogni velleità di sviluppo e di miglioramento. Una generazione figlia di niente – per lo più parente di una contestazione velleitaria e ipocrita – ha sottovalutato le diversità della nostra composizione culturale, tradizionale, linguistica e ha fatto bassa cucina, producendo quanto di superfluo, di brutto e di sbagliato era nelle sue risicate capacità creative.

Ed è andata a finire male, con gente che si crede popolo e che si dimostra ormai incapace di intravedere le sue origini, la sua storia, i caratteri di ogni singola comunità, le attitudini che la definiscono, le relazioni di essa con l’ambiente, le personalità che l’hanno illustrata. E in mancanza di tutto questo, ci si riempie la bocca con la nozione “culturale” di identità o con la proposta “politica” del sovranismo; due belinate che vanno a mischiarsi nel pozzo di mediocrità in cui tutto crolla, nel paese dei Fusaro, dei Crozza, dei Parenzo e dei Cruciani… nella repubblica dei comici a oltranza e dei moralisti da due lire. A proposito, c’è nessuno che voglia concedersi qualche battuta su questi altri morti? Nessuno che preferisca specularci pro domo sua? Qualche ingegnere honoris causa persa? Urbanisti? “Ufologi?” (cantava Gaber…).

No? Che silenzio finalmente…

La bella poesia di occasione che abbiamo letto in rete e che rivendica con fierezza tutti i meravigliosi difetti genovesi come altrettanti segni di resistenza e di vita, dà la misura di quanta distanza vi sia tra l’innocenza di chi se n’è andato e l’insipienza di chi è rimasto a “pontificare” su cose che non può sapere (a causa di un’esistenza tutto sommato inutile). Una estraneità (tra Morti e pseudo-viventi) che ancor più mestamente si avverte oggi, mentre si tengono i funerali di chissà quale Stato ed è proclamato il lutto di chissà quale Nazione. Alla solenne cerimonia sarà presente, a fianco di persone sofferenti e piangenti, tutta la bella Italia che sa fare le facce, che si conduole e che partecipa. Non potranno esserci, a meno di un miracolo, Eugenio Montale, Goffredo Mameli, Italo Calvino, Sandro Pertini, Enrico Piaggio, Vittorio Gassman, Giuseppe Mazzini, Umberto Bindi, Nicolò Paganini, Bruno Lauzi, Edoardo Sanguineti e Leon Battista Alberti. Né hanno inviato un verso, un’idea geniale, una nota, un inno…

Stanno zitti, insieme a Genova.

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