Alessandro Marongiu
A proposito di "Hereditary"

Il cinema spietato

L'esordiente Ari Aster ha realizzato un film nel suo genere perfetto: la malattia mentale non è un horror. O, meglio, è la spietatezza della vita

Hereditary dell’esordiente Ari Aster è un film spietato. Per quello che vi accade in certi momenti e per quello che mostra, certo: ma fosse solo per questo, sarebbe in compagnia di tanti altri film consimili, e potrebbe non apparire come l’oggetto unico o quasi che invece è, specie se rapportato a quanto la sala offre nel Terzo millennio. È spietato perché non si ferma davanti a niente, in primis: e per lo spettatore di oggi, anestetizzato dagli horror degli Studios che sembrano vergognarsi della loro natura e cercano il pubblico delle famiglie, è già una notizia. La sola pellicola più o meno recente (è del 2008) che gli è paragonabile è il capolavoro di Pascal Laugier, Martyrs: chi l’ha visto e poi vedrà Hereditary, pur essendoci infinite differenze tra le due opere, capirà il significato dell’accostamento. Si dirà: l’estremo grafico è comunque poco, di per sé. L’obiezione, volendo, si può accogliere senza fatiche.

E infatti: al di là di una concettualmente ricchissima messa in scena (notevole una sequenza in cui si deformano i volumi della casa in cui è ambientato il film per buona parte della sua durata), al di là dei movimenti di macchina che invitano platealmente a non credere a ciò che si sta vedendo e a rovesciarne il senso, Hereditary è un film spietato, raro, impossibile da non amare per come seppellisce sotto apparenze di genere prossime alla grottescheria (o superandola, non di rado), il suo tema vero e principale, che è quello della trasmissione all’interno di un nucleo famigliare della malattia mentale – nello specifico, della schizofrenia. Con tutto quanto ne consegue: senso di colpa verso i figli a cui si dà in eredità, risentimento verso chi un’eredità così sgradita l’ha consegnata. Non c’è un parente stretto di Annie (la protagonista, interpretata da Toni Collette) che abbia vissuto o viva una vita senza questa tara: la deflagrazione del suo peso darà avvio a un’ecatombe, e poi a un delirio impossibile da arginare. Un delirio reso perfettamente dal dubbio che si insinua nello spettatore da un certo punto in avanti: ciò che vede sta accadendo realmente, nella finzione filmica, o è tutto, solo, nella testa del personaggio? E se così fosse, considerato anche il finale: di quale dei personaggi?

Fermarsi alla superficie o all’effetto, prenderla per la vicenda di una setta dedita al culto di uno dei sette re dell’Inferno, rischia di far commettere un piccolo (piccolo?) peccato contro sé stessi: la dimensione altra di Hereditary è lì davanti agli occhi, senza neanche il bisogno di aggrapparsi agli evidenti richiami al primo Nightmare di Wes Craven – al titolo horror per eccellenza, cioè, sul sogno e sull’inconscio.

Pare sia previsto un seguito, con ancor meno freni: bene così.

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