Francesco Improta
A proposito de "Gli scuoiati”

Un Paese senza pelle

Giuseppe Cristaldi racconta un mondo nel quale l'essere umano, proprio come un animale da macello, è considerato un oggetto da usare e da sfruttare per interessi estranei

Gli Scuoiati di Giuseppe Cristaldi (casa editrice Pellicano, 8,50 euro) è un libriccino di una settantina di pagine che conferma le caratteristiche e le qualità di questo giovane e geniale scrittore trentacinquenne, originario del Salento e attualmente residente nell’entroterra di Sassari, terre, cioè, benedette dalla natura ma dimen­ticate o maltrattate da coloro che governano il paese. Cristaldi, per sua stessa ammissione, crede in una letteratura di servizio e nella capacità d’intervento dello scrittore sulla realtà. Non è un caso che nella sua produzione l’invenzione abbia poco spazio; tutti gli argomenti dei suoi libri sono desunti dalla realtà: vittime dei petrolchimici (Un rumore di gabbiani); traffico di organi umani (Nefrhotel); esasperante pressione fiscale (Macelleria Equitalia), proprio perché Cristaldi considera la scrittura come azione. Solo nel penultimo libro, Nel nome di ieri, si concede una divagazione sentimentale e parla di un amore nato in pizzeria tra sbuffi di farina e tovaglie a quadretti e finito tragicamente in una curva pericolosa della strada, e del destino che infrange sogni e speranze ma non i ricordi che il protagonista cerca in tutti i modi di far sopravvivere.

In questa sua nuova fatica letteraria Cristaldi affronta nella prima parte, autonoma come sembrerebbe suggerire il titolo, Vitruvia, un argomento di scottante attualità ma antico come il mondo, drammatico e doloroso: l’innocenza rubata, l’infanzia spezzata, la violenza tra le pareti domestiche. Mentre nella seconda parte, preceduta da due eserghi che annunciano i temi del viaggio e della memoria, si abbandona a un lungo monologo interiore, in cui personaggi, avvenimenti ed emozioni della sua vita affiorano dal profondo attraverso un inesausto flusso di coscienza.

Nel breve racconto iniziale una giovane donna, assunta come bibliotecaria comunale, cerca di dimenticare, familiarizzando con i grandi scrittori che affollano gli scaffali della biblioteca, il suo passato angoscioso, le visite notturne degli uomini neri – così a lei appaiono – nella cameretta di bambina, le mani che la palpano e che sembrano moltiplicarsi frugando sotto il pigiamino e privandola non solo del suo mondo fiabesco, rappresentato dai cartoni disneyani, ma anche della scoperta del mondo esterno. Le gite in riva al mare non hanno nulla della gioia o dello stupore che dovrebbero avere in chi per la prima volta si confronta con lo spettacolo meraviglioso della natura; non a caso le onde che lambiscono la riva, formando sulla battigia trine o merletti di schiuma, non sono per lei dolci carezze ma freddi e lancinanti artigli.

I libri che occhieggiano dagli scaffali della biblioteca sono un invito costante alla lettura e la lettura potrebbe essere una forma di salvezza, trasportando la protagonista verso mondi inesplorati, a contatto con nuove esperienze e psicologie, ma il cabotaggio lungo mari e lidi sconosciuti non riuscirà mai a cancellare i drammatici eventi del passato e il dolore lacerante ad esso connesso, le macchie e gli incubi che si porta dentro. Le consente, però, di acquisire un sentimento supremo, capace di superare i fatti e i misfatti e di ricucire gli strappi, la pietà, quella pietà che come dice Foscolo è l’unica vera virtù, in quanto tutte le altre sono virtù usuraie. Pietà per l’animale umano. Ed è questo il monito che attraversa tutto il libro di Cristaldi, ora come una preghiera, ora come un imperativo categorico.

La seconda parte nasce come un esorcismo, al pari di un riscatto se non di una catarsi. È preceduta da Istruzioni per il disuso in cui Cristaldi non solo invita il lettore a dimenticare quello che leggerà ma, citando il Pinocchio di Carmelo Bene, a leggerlo con gli occhi di un bambino. Come la prima parte è assimilabile a un racconto, questa può essere considerata un pometto e non tanto per le stanze in cui è suddiviso, o per le rime che spesso vi s’incontrano ma per il continuum narrativo che lo sorregge. Il titolo Gli scuoiati, ovvero Senza pelle, ci richiama alla mente animali da macello, appesi ai ganci a testa in giù e questa immagine non solo è confermata dalla copertina di Leonarda Catta ma anche dal titolo e dalla copertina, in cui il corpo umano viene suddiviso ed etichettato come un bovino da squartare, del suo libro, a mio avviso, più importante e significativo Macelleria Equitalia. Si rinnova, quindi, l’invito doloroso ma non patetico, Pietà per l’animale umano, così come si rinnova l’invito a respirare, perché si corre il rischio di rimanere senza fiato.

Come si legge giustamente nella prefazione di Leonardo Omar Onida quella di Cristaldi in questo libro è una scrittura senza latitudine, una narrazione della profondità. Ed è dagli anfratti dell’inconscio, oltre che dalla selva intricata e labirintica della memoria, che Cristaldi trae immagini, personaggi e situazioni del suo vissuto, dell’ambiente familiare, del suo rapporto non sempre felice con il padre, del suo immaginario adole­scenziale. Personaggi pubblici (Clinton), televisivi (Corrado) e sportivi (Mazzone e Miccoli) si affollano e spingono per recuperare un’identità, per acquisire un significato nel tessuto esistenziale dell’autore. A questi bisogna aggiungere i modelli culturali a cui Cristaldi da autodidatta si è ispirato: Deleuze, Bene, Calvino, Queneau, Cavalli e Bodini. Né mancano riferimenti espliciti alle donne della sua vita: la madre, la sorella, la moglie e la maestra, agli amici dell’infanzia, ai suoi primi approcci, timidi e impacciati all’altro sesso, ai giornaletti di donnine con le poppe al vento, alla pratica della masturbazione, e per contrasto al parroco che sonnecchia e ai chierichetti che lavano i piedi, o accenni vaghi ma significativi al suo paese natio, alle sagre paesane e ad altre attività ludiche, distensive come il festival di Sanremo o formative, come la filmografia o la scrittura surreale di Jodorowsky.

Io credo, comunque, che per focalizzare e non per decifrare questo poemetto scritto in apnea sia necessario riportarne un brano, oserei dire un lacerto riferendomi all’animale umano, convinto, però, che sia impossibile dipanare dalle immagini che scaturiscono a getto continuo significati e nessi. Sono sequenze di fotogrammi che si susseguono con tale densità e rapidità che, per rimanere nell’ambito cinematografico, si teme che la pellicola di celluloide possa prendere fuoco da un momento all’altro. Bisogna quindi lasciarsi andare al flusso delle emozioni e assaporarne il colore, il suono e la musicalità.

«Il mio Sud non esiste, è un abbandono spaventoso, salino,
capelli partigiani nel lavandino, ormoni da dentifricio,
artificio stradario di nastro da pacchi, ricotta forte,
fortissima, sulla rotta iperborea della salvezza.
Il mio Sud è un velo nero che gioca al carnevale,
un po’ aquilone, un po’ sudario, bocca a bocca
su dorsi d’ossigeno e viene sera ancora di croci
renali, passa Jodorowsky, tocca non tocca onirico,
il comitato festa appunta la sfilata, la cartapesta
delle medaglie è questo libro in decostruzione».

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