Marco Ferrari
Al Museo dell'Attore di Genova

Ricordate Macario?

Surreale, lunatico, assurdo: sono alcune delle definizioni più usate per descrivere il volto e la gestualità di Erminio Macario, comico d'altri tempi che una mostra riporta d'attualità

Surreale e lunatico, lo sguardo malinconico di un clown d’altri tempi, un ciuffo ribelle in testa, un “Pierrot lunaire” che ha attraversato il Novecento con un umorismo poetico: questo era Erminio Macario, una delle maschere più significative del cinema e dello spettacolo italiano. Una mostra allestita a Genova e curata dal figlio Mauro ci racconta il Macario pubblico e segreto attraverso foto, testi, manifesti, locandine e programmi di sala originali. Macario oggi è considerato uno dei maggiori rappresentanti della comicità popolare italiana insieme a Ettore Petrolini, Totò, Renato Rascel, Walter Chiari. Un periodo un po’ dimenticato, quello della Rivista, che la mostra Macario: una maschera del ‘900 punta a far rivivere attraverso materiale attinto direttamente dall’archivio della famiglia Macario: un viaggio lungo 60 anni, dagli anni ’20 agli anni ’80, periodo in cui l’attore recitò in 50 riviste e 40 film, rifiutandosi di abbandonare il palcoscenico sino all’ultimo. La mostra, allestita nella sala di lettura del Museo dell’Attore di Genova, resterà aperta fino al 28 settembre 2018. Un’altra esposizione più ridotta, proveniente dagli archivi della Siae, è stata di recente ospitata nel foyer del Carignano di Torino.

«Qui si ricostruisce il passato, incessantemente, senza clamore – è il commento di Mauro Macario – per traghettare una memoria nel futuro». Erminio Macario (Torino, 27 maggio 1902 – 26 marzo 1980) era una maschera teatrale, una figura comica che discende dalla Commedia dell’Arte in ambito moderno. Si tratta di un personaggio che, per stile e vocazione, è più sensibile a certi richiami francesi di stampo surreale che al consueto realismo italiano. Appare come una figura mite, naif, funambolica, che attinge all’umorismo dell’assurdo, al nonsense, alle analogie impossibili, un pupazzo mosso dai fili di una fantasia talvolta soffusa di poetico candore. Elegante nella sua gestualità di folletto danzante, fulmineo nella battuta, dotato di un linguaggio mimico di raffinata efficacia espressiva, è il solo comico italiano che ritroviamo trasfigurato nel mondo delle vignette. Attore, regista, autore, attraversa generi e discipline artistiche comunicanti: il teatro di Rivista, la prosa, il cinema, la televisione. Ha lavorato ininterrottamente dagli anni venti fino al 1980, data in cui il sipario si chiude sulla sua avventura scenica e umana. Lasciò il mestiere solo perché colpito in scena da un malore che si rivelò poi fatale. «Contro una comicità realista giocata sul sesso facile, la fame e le corna – spiega ancora Mauro Macario, il figlio settantenne dell’attore, che affiancò il padre lungo un tratto di carriera – lui portava in scena un tocco delicato, elegante, quasi surreale».

Aveva iniziato da ragazzino come “scavalca montagne” con un gruppo di guitti nelle piazze e nei cortili dei paesi piemontesi. Alla Rivista ci era arrivato grazie alla soubrette Isa Bluette che lo notò e lo avviò ai segreti della professione. «Totò, Petrolini e mio padre rappresentano la comicità italiana del Novecento» dice Mauro. Nel 1934 proprio Petrolini suggerì al giovane Erminio Macario di gettare il naso finto e la parrucca per usare quella sua vera faccia che, sosteneva l’attore romano, «valeva un milione». Ma era stato Totò a dargli la vera chance della carriera chiamandolo alla fine degli anni ‘20 per una sostituzione. Il principe De Curtis, ormai semicieco, quarant’anni dopo gli aveva chiesto aiuto per girare insieme una serie di film. «In certi film degli anni ‘40 di Mattioli – racconta il figlio – c’era un giovanissimo Fellini, collaboratore del Marc’Aurelio, a scrivere le gag per mio padre».

La pellicola più cara a Macario era Italia piccola, diretta da Mario Soldati nel 1957, ma è andata perduta. Con lui recitavano Nino Taranto ed Enzo Tortora. Dopo un breve ruolo nel film muto Sole di Blasetti, esordisce come protagonista nel 1933 con il film Aria di paese, di cui firma anche la sceneggiatura, che si rivelerà una esperienza poco fortunata. Il secondo tentativo, Imputato, alzatevi! del 1939, regia di Mario Mattoli e soggetto di Vittorio Metz e Marcello Marchesi, avrà molto più successo. Forse proprio con questo film, per la prima volta nella storia del cinema italiano, si può parlare di comicità surreale.

Seguirono poi, in una ideale trilogia, i film Lo vedi come sei… lo vedi come sei? (1939), Il pirata sono io! (1940) e Non me lo dire! (1940). In questi ultimi film Federico Fellini collaborò come gagman alle sceneggiature. Il successo sul grande schermo continua anche negli anni Cinquanta, prima con il campione di incassi Come persi la guerra (1947) e poi con L’eroe della strada (1948) e Come scopersi l’America (1949), tutti diretti da Carlo Borghesio. La sua formula spettacolare, tuttavia, restava sempre più adatta alla Rivista e alla commedia musicale, che esaltavano la sua candida e innocente maschera attraverso le “prepotenze” sulla sua fedele spalla, Carlo Rizzo, e soprattutto attraverso il sottinteso erotico delle sue “donnine”. Forte del sodalizio artistico con Wanda Osiris, il piccolo soldatino piemontese scoprì uno stuolo di soubrette, da Olga Villi a Lauretta Masiero, da Isa Barzizza a Lea Padovani. E poi nel dopoguerra Marisa Del Frate, Raffaella Carrà, Gloria Paul. Come soubrette ebbe anche Sandra Mondaini che però aveva un ruolo dissacrante. «Mio padre – racconta ancora Mauro – ha reinventato i moduli della rivista, studiando a Parigi dove replicò un suo spettacolo per sei mesi incantando gente come Jean Renoir».

Sul finale di carriera ritrovò anche il teatro piemontese, raccogliendo un grande successo con Le miserie di Monsù Travet. Si cimentò anche con la prima televisione con le sue battute dirette, spesso fuori sceneggiatura ma soprattutto con le pose mimiche. Nel ruolo di Macarietto diventò un personaggio della famosa Tv dei ragazzi e una striscia nel Corriere dei piccoli o nel Monello. Insomma, un personaggio eclettico e irripetibile di cui ci resta soprattutto la sua espressione inconfondibile.

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