Giuseppe Grattacaso
A proposito de “La gentilezza dell’acero”

Poesia sottovoce

La nuova raccolta di Alessandro Quattrone vive dell’atteggiamento «gentile e accorato» del poeta nei confronti del mondo che gli sta intorno, delle presenze naturali agli oggetti quotidiani, fino ai piccoli avvenimenti di ogni giorno

Oltre il clamore dell’epoca, il rumore di fondo che vorrebbe fornire sicurezza, le frasi scontate urlate come verità assolute, oltre la propensione a ridurre la complessità nei confini certi di uno slogan, c’è la poesia. Alessandro Quattrone è un poeta che ha seguito con coerenza e determinazione una propria strada, continuando a riflettere sul senso della vita, sul rapporto con gli altri, siano essi persone o oggetti, abitando in quei luoghi ritirati e fuori mano a cui obbliga il vocio invadente dei tempi. Nativo di Reggio Calabria, ma da tempo residente a Como, Quattrone ha esordito nel 1984 con la raccolta Interrogare la pioggia ed ha trovato una piena maturità espressiva con L’ombra di chi passa (Puntoacapo. 2015), di cui abbiamo parlato su questo stesso web magazine, e con La gentilezza dell’acero, edito da Passigli e da poco in libreria. Qualche mese fa, ancora per l’editore Puntoacapo, Quattrone ha dato alle stampe il gustoso volume di testi per il teatro A me non sembra di dover morire ed altri dialoghi teatrali.

La poesia di Quattrone si propone sottovoce, in un pianissimo (tanto per ribadire la lontana parentela poetica con Sbarbaro, già segnalata nell’introduzione al volume di Giancarlo Pontiggia) che è capace di notevole forza comunicativa, di una ricerca approfondita e severa nel tentativo di mettere il lettore, ogni lettore, anche quello meno accorto, di fronte a se stesso, alle asperità e alle contraddizioni dell’esistenza. La gentilezza dell’acero vive innanzitutto dell’atteggiamento gentile e accorato del poeta nei confronti del mondo che gli sta intorno, nei confronti delle presenze naturali, gli alberi le piante gli animali, ma anche degli oggetti quotidiani, dei piccoli avvenimenti di ogni giorno, che spesso trascorrono senza lasciare traccia nei nostri ricordi e sui quali invece Quattrone indaga, nei quali penetra con occhio vigile. È lo sguardo, lo strumento che il poeta utilizza per entrare nel mondo, vicino o lontano che sia. Lo sguardo che si fa subito pensiero. La poesia di Quattrone infatti non vuole dispiegare un susseguirsi di immagini, piuttosto è propensa a riflettere, a fare dell’approccio visivo il punto di partenza di una approfondita meditazione.

Non è un caso che la prima sezione del volume si chiami Osservazioni e sguardi, e non sfugga che il termine “osservazione” può contenere sia l’atto del guardare con attenzione sia quello di fare delle osservazioni, cioè di esprimere delle opinioni. L’idea complessa dello sguardo è peraltro racchiusa in una poesia, che si riporta per intero: «Entrare in un museo non per guardare / ma per essere guardati dai ritratti / di personaggi illustri e consapevoli / della loro evidente dignità. // Entrare per sottrarsi ai volti anonimi / che assorti per la strada non ti vedono. / e apprendere che tuttavia c’è un modo / per conservare intatto anche lo sguardo».

È un mondo sospeso quello che emerge dai versi de La gentilezza dell’acero, alla ricerca di conforto e di una sistemazione che possa risultare in qualche modo o almeno per qualche tempo stabile, dove ogni cosa è in stretto collegamento con il resto del cosmo, ma è anche irrimediabilmente sola, impegnata a capire il motivo per cui esiste e per cui occupa un determinato posto nel mondo. Così «sono gentili gli astri innumerevoli / ma non credono di dover rispondere / agli alberi che implorano spauriti», nemmeno portano conforto agli animi innamorati o malinconici:  «Sono gentili di solito, ma a volte / scintillano così, senza un motivo».

L’incanto della vita, in questa poesie di straordinaria forza, è in qualcosa che potrebbe accadere e farci felici, nella felicità che è sul punto di manifestarsi, nell’incontro che sta per compiersi. Nulla però accade, ma è proprio in quell’attimo di sospensione, nella pausa tra l’attesa e la delusione, che la vita dà il meglio di se stessa. «È stato solamente un malinteso, / come quando ti si avvicina un cane / credendo che tu abbia qualcosa / da offrirgli, uno sguardo, un’amicizia / che sfama, rallegra e rassicura, / qualcosa che ci sarà e non c’era: / e invece nelle mani desolate / non hai altro che una carezza, breve». Oppure di fronte a un “volto fra mille che incanta” e che ci fa per un attimo credere che in esso si racchiuda una promessa, scoprire presto che «quel volto è un dono inutile / perché non siamo noi i destinatari». In ogni caso qualcosa è successo, l’incanto si è realizzato, in quanto quella figura «con il solo suo apparire / conferma che la felicità esiste / da qualche parte, e a volte ci sfiora, / ma ci proibisce di chiamarla, e persino / semplicemente di nominarla».

La poesia di Quattrone non si concentra sulla delusione, che pure non può che essere l’inevitabile epilogo di ogni attesa, ma in quello che la precede, quando il miracolo sembra stia per realizzarsi. C’è da dire che il miracolo per Quattrone non è lo spiraglio metafisico a cui aspirava Montale, la “maglia rotta nella rete” che ci permette di fuggire verso qualche verità, bensì la possibilità di ricostruirla la rete, di mettere in ordine i pezzi, di dare un senso al rapporto che ci lega alle cose e agli uomini. La vita è perciò anche sempre ad un passo dal nulla, dall’assenza, da quello che non possiamo conoscere. Può succedere che a un concerto “intanto che la musica si sparge” capiti di pensare a coloro «che una volta c’erano / e cantavano con noi fiduciosi». Erano lì, come gli uomini in una poesia di Sbarbaro, in quel caso colti nell’atto di inseguire farfalle, «sospesi sull’abisso senza saperlo, / anzi credendo come tutti / di stare battendo il tempo con il piede».

La poesia di Alessandro Quattrone ci parla della nostra incosciente fragilità, della possibile gioia e dell’inevitabile limite, con esemplare chiarezza e con un tono pacato e composto, sempre attenta a non essere preda di facili entusiasmi, a non suggerire accomodanti verità, a mostrarci quasi felici mentre battiamo il tempo con il piede.

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Accanto al titolo, Ottone Rosai, “Paesaggio toscano”, anni Quaranta.

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