Lidia Lombardi
Visto a Villa Medici

Il bilingue Marivaux

Muriel Mayette-Holtz, la “domina” dell’Accademia di Francia a Roma, attrice e regista, mette in scena con maestria “Il gioco dell’amore e del caso”, summa della poetica dell’autore settecentesco. In doppia lingua, in omaggio alla Patrie e al Paese ospite, almeno in questa sede affratellati

Una facciata – quella cinquecentesca di Villa Medici, che si apre sul giardino all’italiana e sul parco – naturaliter perfetta come scena teatrale e insieme una “domina” del luogo che è attrice, regista e ha amministrato la Comédie Française: il connubio porta dritto dritto all’allestimento di una drammaturgia. È così che per la prima volta nella sede dell’Accademia di Francia, natura e architettura volute dal cardinale Ferdinando de’ Medici sulla collina del Pincio, è stata rappresentata una commedia en plein air. E che commedia: un testo di Marivaux, il più gettonato oltralpe, Il gioco dell’amore e del caso, summa della poetica dell’autore settecentesco. Testo leggero e ammiccante, intriso di risa e di disperazione, di ambiguità e di schermaglie amorose, di ambizione e di umiltà che Muriel Mayette-Holtz – appunto la direttrice dell’Accademia di Francia – ha messo in scena facendo una serie di omaggi: al luogo prima di tutto, trattato alla stregua di “dramatis personae” perché l’acqua delle sue fontane, ora schizzando i personaggi, ora minacciando di inghiottirli nei pochi centimetri di azzurro liquido è spia di situazioni in bilico, di allegria o riluttanza; ancora, perché le finestre e le porte, le colonne e le statue sono aperte e chiuse, accarezzate e indagate per costituire gli snodi del plot; perché le cime dorate dei pini al tramonto e lo scuro del fogliame fitto sono vibrano di sorprese, come l’arrivo e lo scontroso accenno di partenza del protagonista, Durante, nobiluomo che si presenta in sella a un cavallo bruno, lui prestante e di bianco vestito, ancorché in abbigliamento fittizio.

Infatti Durante giunge nella blasonata magione di Silvia per chiederla in sposa. Ma si scambia il ruolo con il suo valletto Arlecchino, per vedere come si comporti la futura sposa. Marivaux imbroglia la faccenda con un altro travestimento, che anzi è il primo a proporsi al pubblico. Silvia ordisce lo stesso inganno con la cameriera Lisetta. Diffida infatti del legame matrimoniale, la damigella, tanto quanto Lisetta ne magnifica le gioie. Ma le due si accordano e si scambiano gli abiti, con il consenso di monsieur Orgone, il padre di Silvia, e con la complicità del fratello Mario, convinto di divertirsi un mondo dietro le quinte, a osservare gli sviluppi dello scambio di persona. Succede invece che i due finti servi si innamorino a prima vista e che intreccino raffinate schermaglie amorose, pur restando lei caparbia nella sua ritrosia; e che parimenti siano presi l’uno dall’alta i due finti signori, con spasimi più spicci e con siparietti esilaranti quando invano la loro rozzezza cerca di ammantarsi di savoir faire. Ecco Arlecchino apostrofare anzitempo Orgone come “suocero”, ecco Silvia commentare preveggente che «nessuno di questi due uomini è al posto giusto». Il gioco degli equivoci lievita, sostenuto dai dialoghi che mettono a nudo l’animo umano ricorrendo spesso alla maestria dei paradossi linguistici. E la regia asseconda bene l’altalena degli umori. Ma soprattutto si rivela virtuosa nell’uso dell’italiano e del francese da parte degli attori, che trapassano da una all’altra lingua con immediatezza esemplare. Ed è proprio la contaminazione delle favelle a fare dello spettacolo una delle cifre distintive: la lingua del oui è prevalente nel primo atto, ma quando la vicenda si ingarbuglia, intelligentemente avanza l’uso della lingua dell’hoc, a rendere perspicuo agli spettatori italiani il cammino verso l’epilogo.

Nelle dieci repliche appena concluse hanno padroneggiato la scena la vibrante Silvia – ora risa, ora pianto, ora inganno – di Marina Occhionero, l’ardente Dorante di Luca Tanganelli, la bamboleggiante Lisetta di Marial Bajma Riva, il goffo Arlecchino di Matteo Cecchi. Mario è Matthieu Pastore, il saggio e scherzoso Orgone – a sorpresa – Gérard Holtz, estroverso giornalista sportivo che la moglie-regista Muriel ha ben oleato per calcare la scena. Ha introdotto ogni atto il favoleggiante flauto di Margot Mayette su melodie dalla stessa composte. Il pubblico, estasiato, resta in attesa, come anticipato da Mayette-Holtz, che spettacoli in doppia lingua si ripetano, omaggio a Francia e Italia, in Villa Medici almeno affratellate.

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