Giuliano Compagno
I casi di Giulia Alvear Calderon e di Isidora Blu

Presenza e Distanza

La fandonia artistica di gruppo e la ricerca solitaria: la moda vuota e la pienezza dei corpi che inseguono il loro senso. Una riflessione sull'arte (inseguendo la memoria di Mario Perniola)

In un campeggio di Porto Sant’Elpidio, La Risacca. Di buon mattino siamo in perlustrazione: le mie due bimbe Irene e Sabina, la loro amica Sofia e io. I camping sono piccoli mondi a loro stanti, ciascuno possiede qualcosa che altri non avevano o non avranno. Questo in particolare appare un luogo sano, popolare ma non coatto, civile ma non snob. In piazzetta scorgiamo un gruppo intento a seguire le indicazioni di un’istruttrice. «Che fanno?» domando a un tipo. «Risveglio muscolare.» risponde quello. Accenno ai miei muscoli assopiti e intanto osservo la compitezza e la precisione della trainer. Bastano pochi minuti a convincermi che l’indomani mi risveglierò anche io. A sera l’ambiente e il contesto mutano totalmente: su di un palco ci stanno due ragazzi che ballano Daddy, un pezzo di Psy di cui per fortuna non si conosce universalmente il testo. Ma quel paio di danzatori è incantevole. Lui si chiama Alessio Indorato ed è il capo-animatore del centro. E lei? Sabina, nove anni e 10/10 di vista mi rimbrotta: «Ma come chi è? È quella della ginnastica di stamattina!» Alché, salgo in cattedra (ne posseggo una tarlata a tre piedi): «Ma che dici tesoro!?!? Quella fa una cosa totalmente diversa, lavora sul corpo in modo leggero… ti risveglia e ti rilassa allo stesso tempo… Pensa che fa anche yoga!!!». Sabina mi osserva come merita un docente di cretineria, finché riesce a defilarsi. Subito dopo vengo a sapere che ha ragione lei. La yogi solenne e pensosa e la dancer ridente e incontenibile sono una ragazza sola.

È complicato descrivere le differenze o le affinità tra due volti, figuriamoci tra altrettanti comportamenti che la cultura comune ha preferito ordinare in fascicoli distinti. Perciò, quando accade che un fatto smentisca tale derubricazione, ci si pensa su.

E si parte da alcuni dati inoppugnabili: Giulia Alvear Calderon (qui e nella foto accanto al titolo) resta, in apparenza, un solo essere fisico, concepita da una madre marchigiana e da un padre ecuadoriano, del quale, ad accennarne, lo sguardo di lei prende a viaggiare in una nube di malinconica distanza. La Sierra è una regione montana e Cuenca si adagia a 2.500 metri di altezza. Lassù ci piove per metà giorni all’anno e la temperatura oscilla stabilmente tra i 10 e i 20 gradi. È la terza città del paese, fondata a metà del XVI secolo da Gil Ramírez Dávalos, un esploratore abbastanza curioso. Gran parte degli italiani – ovvero il popolo geograficamente più ignorante del pianeta – starà già pensando a un paesone senza arte né parte (come loro insomma…). Invece Cuenca conta mezzo milione di meticci, qualche migliaio di bianchi, otto università antiche e il signor Alvear Calderon, papà di Giulia.

Mi chiedo: per lui che abita laggiù e ogni tanto parte per un’isoletta ancor più remota, saranno scontate le doti di questa sua figlia oltreoceano? Perché ad esempio alle mie bambine non risultano scontate per niente! Anzi, loro andranno via via riconoscendo i sorprendenti e vari talenti di una sconosciuta performer: dall’acquagym all’hip hop, dalla danza classica al rap, dalla coreografia alla street-art…

A mia volta ne avevo incontrati di artisti giovani e bravi, eppure le variazioni di Giulia cominciavano a sorprendermi. Mi stava mostrando un versante poco battuto, forse trascurato della mia modesta attenzione. Certo, a ogni sua piccola impresa si accompagnavano, da un lato l’uso di ogni tecnica specifica, dall’altro una considerevole dimostrazione di eclettismo. Nulla ovviamente rilevava di virtù universali, ma era esattamente questo il paradosso da cui traeva origine il mio stupore, dato che ella, al contrario, non evocava alcunché di dilettantesco. Tanto per appesantirmi con dei paragoni negativi, mi veniva in mente gran parte della “letteratura” e delle “arti” giovanili in Italia. Per dirla in breve, quel dilettantismo che si fonda sulla volontarietà di una dimostrazione puramente velleitaria. Quel che ha sempre praticato, a mio avviso, una sedicenza capace di mutarsi – non appena convenisse – in sedicería. Si comincia a dire in giro che quel tale scrittore sarebbe uno scrittore, mentre è una pippa analfabeta. La sedicería si divulgherà e si consumerà all’interno di un circolo sempre più vasto e agguerrito di pippe analfabete che si sosterranno le une con le altre.

In tal senso, Roma è un po’ la capitale europea della fandonia artistica di gruppo, di un’auto-eccitazione parossistica in brutta copia. E proprio il riconoscimento del prodotto DOC, “Dilettantesco a Origine Controllata”, viene concesso (da una commissione interna e selezionatissima dal basso) grazie allo sciatto esibizionismo di una millantata vocazione artistica. Talmente sciatto che un osservatore nemmeno troppo accorto smaschererà il millantatore in pochi secondi: ossia in mezzo paragrafo, in una nota di regia, in tre accordi, in quattro passi, in una specie di idea…

Negli ultimi anni mi è occorso di sciropparmi tutto uno scemenziario di finti registi, di drammaturghi auto-nominati, di performanti in delirio, di critici in letargo, di direttori artistici forse deceduti loro malgrado… E tutti costoro erano, per così dire, “inanimati” da una ridicola posa ispirata, quella che non scorgevo in una sola espressione di Giulia. Era un dono di modestia il suo? No, semmai era frutto di una dissimulazione naturale, che poi starebbe nel far coincidere le sue nozioni acquisite (nelle accademie, nelle scuole, nei progetti collettanei…) con le loro conseguenti azioni fisiche.

Ora, la questione del rapporto tra Artista e Corpo, rioccupando il centro dei miei pensieri, creava nella mia mente in vacanza uno strano accostamento tra due artiste assai diverse (in apparenza). Insomma quel labirinto di movenza inesausta di Giulia Alvear Calderon mi aveva ricordato la staticità febbrile di Isidora Blu (qui accanto).

Da poco esule a Londra, Isidora è un’auto-ritrattista felicemente in grado di riprendersi a partire da concetti e da nozioni che, nel tempo, si avvicendano nella sua mente liberata: lo specchio e il suo doppio, il non compimento, la linea di confine e il percorrerla senza valicarla, la sovranità… Tutto questo, tra molto altro, Isidora lo ritrae con il suo corpo, senza “esibire” un lembo della sua pelle, sebbene possa apparire nuda al più cieco dei contemplatori. Invece, a chiunque sia dotato di uno sguardo angelico ed erotico, il suo corpo dona la profondità di un nascondimento reale, di quella sorta di inviolabilità che è in dote ai soli esseri puramente indifferenti al funzionamento di un sistema qualsiasi (purché sia). In ciò le azioni di Giulia Alvear Calderon e di Isidora incarnano una forma di ribellione a tal punto indomabile da arrendersi solo al masochismo e alla cerebralità di chi vi si sottometta, mai chiedendo null’altro e nulla più.

L’applicazione concentrata di questi due Casi appare formidabile. Da essa si rivela in tutta evidenza quella distanza dalle cose mondane che sarebbe principio e fine della vitalità e della meditazione, l’una condizione dell’altra ed entrambi dimoranti in loro, vis à vis. Cava, Salaroli e Bucci, fondatori di “Scomodo”, sarebbero ad esempio in grado di cogliere questi due fenomeni disagevoli e non adeguati, a loro coevi, grazie a cui le singole esperienze estetiche si trasmettono al prossimo e, allo stesso tempo, si disconnettono da esso. E ripensando ai loro corpi “in onda”, andrebbe osservata la provocatoria disattenzione che i soggetti destinano a quei loro “strumenti” performativi. E così Giulia e i suoi lividi di allenamento, e così Isidora e i suoi tagli in controluce, entrambe riflesse in altrettanti profili che rimandano a certe donne avventurose del Novecento, pioniere di solitudini mai concepite prima e realizzatrici di un Sentire affine, fondato sulla giusta distanza (vedi Edward Bullough, La distanza psichica come fattore artistico e principio estetico, addirittura del 1912), ovvero sulla presenza e sull’assenza in coabitazione. Perché il tratto che ancora più saldamente lega tra loro questi archetipi di outsider è quello di conciliare i conflitti. Infinitamente fuori del mondo e dentro loro stessi, i corpi non esercitano alcun contatto con la materia che li circonda e che pure usano, e nonostante ciò irradiano una luminosità eclatante agli occhi più attenti.

Ciò è anche effetto della alienazione tra i generi, laddove, sul piano di un’Erotica generale, la riduzione del desiderio in bisogno del genere maschile si rivela sempre più incapace di intendere l’assoluto movimento contrario del genere femminile. Dal lato squisitamente intellettuale parrebbe insomma che alcune giovanissime artiste odierne si mostrino irredimibili dinanzi ai piccoli sistemi dominanti della poetica e della critica. Che non gliene importi nulla. E proprio in questo senso L’arte espansa a cui Mario Perniola aveva intitolato un recente pamphlet, trova il suo lenimento e la sua rivincita nell’apparire e nello scomparire di Giulia Alvear Calderon e di Isidora Blu, esempi di irresolutezza e di risonanza ai quali il grande, amatissimo filosofo italiano avrebbe certamente dedicato la sua lungimiranza e la sua bella ironia.

“Le strategie artistiche e teoriche hanno cercato fino a oggi di mantenere separata l’Outsider Art dall’arte istituzionale. Con la svolta fringe questa fondamentale distinzione è caduta.”

Ciao Mario, manchi e ci sei.

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