Nicola Bottiglieri
A proposito di “Retrato, personaje y fantasma”

Noi, visti da lontano

Il critico letterario messicano Christopher Domínguez Michael analizza la letteratura italiana del Novecento con D'Annunzio, Malaparte e Pasolini: una chiave inedita per capire come ci vede il mondo

Quale letteratura italiana viene letta all’estero, e in particolare in Messico? Questa domanda non è retorica, né inattuale, dopo le polemiche scatenate dal successo dei romanzi di Elena Ferrante negli Stati Uniti, dove la scrittrice viene vista come la punta più avanzata della letteratura italiana. La vitalità di una cultura dipende anche dalla capacità di plasmare una immagine di sé valida fuori dai propri confini. Queste cose le sanno bene i creativi di spot pubblicitari, capaci di declinare lo stesso prodotto in salse diverse secondo il paese nel quale viene venduto. L’altro è uno specchio nel quale puoi riflettere la tua identità se sei capaci di elaborarla e di proiettarla oltre le finestre di casa tua.

Il famoso quadro di Diego Velásquez, Las Meninas 1656 (come non ricordare le riflessioni che su di esso fece Michel Foucault in Le parole e le cose?) che io considero il punto di partenza della modernità, illustra in modo meraviglioso come l’incrocio degli sguardi, fra chi osserva e chi viene osservato (operazione molto più complessa di una semplice traduzione linguistico-letteraria) sia il fondamento di ogni riflessione sulla identità. Siamo responsabili anche dell’immagine che di noi diamo agli altri.

Questa riflessione è utile per affrontare la lettura del libro del saggista messicano Christopher Domínguez Michael, Retrato, personaje y fantasma (Ai Trani Editores, Ciudad de México, 2016, pp.140), centrato su tre scrittori che hanno segnato il XX secolo italiano: Gabriele D’Annunzio, Retrato de un hombre en el cielo, Curzio Malaparte Personaje en un golpe de Estado e Pier Paolo Pasolini, Reaccionario de izquierda, poeta marxista y fantasma. Perché Domínguez ha scelto questi tre autori? Forse perché D’Annunzio, definito il Rubén Darío degli italiani ha combattuto nella prima guerra mondiale, Malaparte ha registrato le atrocità della Seconda e Pasolini ha analizzato la convulsa entrata nella modernità della società italiana; oppure perché questi italiani toccano temi molto vicini alla storia del Messico? Per tutte e due le ragioni, viene da dire alla fine della lettura del libro. Tre autori che descrivono un secolo, tre italiani attraverso i quali si riflette anche sulla storia del Messico. Purtroppo non abbiamo italiani che attraverso scrittori messicani ci facciano capire cose del nostro paese. Ce ne sarebbe bisogno, soprattutto quando il fenomeno migratorio dal sud al nord è esploso in Europa, mentre il fenomeno dal Messico agli Stati Uniti ha più di 50 anni.

Scrittori italiani molto vicini al Messico, dunque! Infatti il rapporto che il poeta D’Annunzio ebbe con la guerra ricorda la lunga tradizione di scrittori che presero le armi durante la rivoluzione messicana (1910-1919) a cominciare da Mariano Azuela (Los de Abajo); D’Annunzio, inoltre, è legato ai colpi di mano militari, ai voli dei primi aeroplani, al castello di Miramare a Trieste (che per i messicani è una icona delle guerre d’Indipendenza) ma soprattutto agli anni della belle époque, una stagione che in chiave minore ci fu anche in Messico sotto il regime di Porfirio Diaz, dove il francese veniva usato in Parlamento e le case costruite “alla francese” non pagavano imposte.

Curzio Malaparte è lo scrittore-personaggio emerso in Italia in un momento storico nel quale non esistevano partiti politici di sinistra capaci di intrecciare la scrittura con le aspirazioni di una classe sociale. Si chiamava Curzio Suckert, ma inventa per se lo pseudonimo Malaparte, in contrapposizione a Napoleone Bonaparte, muovendosi sempre fra il sublime e il ridicolo, fra l’ironia urticante ed il luogo comune, fra il servilismo e la ribellione. Il suo interesse per Trotsky, figura molto legata al muralismo messicano, la conoscenza dell’Unione sovietica che aveva fatto la seconda rivoluzione contadina del secolo dopo quella messicana, l’uso della tecnica narrativa del libro-reportage (che ritorna nel grande libro La noche di Tlatelolco di Elena Poniatowska del 1971, un reportage sulla strage di 300 giovani nella piazza di Tlatelolco nel 1968,ordinata dal presidente Diaz Ordaz, un episodio raccontato anche da Oriana Fallaci per l’Europeo), sono tutti elementi che si ritrovano nella cultura del grande paese latinoamericano del XX secolo. Senza dimenticare che Malaparte ebbe sempre successo in America latina, non solo con La pelle, ma anche con Tecnica di un colpo di stato (1931), che venne pubblicato dopo che in Argentina era uscito il romanzo di Roberto Arlt, I sette pazzi (1929), dove si parla di un progetto di colpo di Stato, finanziato con i guadagni delle prostitute di un bordello di Buenos Aires. Tecnica di un colpo di stato, inoltre, fu una delle prime letture di Fidel Castro in prigione dopo l’assalto alla caserma Moncada, ma fu proibito in Italia perché Hitler viene definito un «Giulio Cesare in costume tirolese».

Non stupisce, infine, il grande interesse per l’opera di Pasolini, il più amato della triade presente nel libro. Pasolini è legato ai temi della religiosità popolare, al passaggio dal mondo contadino alla società industrializzata, al conflitto fra progresso e sviluppo, alla “mutazione antropologica”, al rapporto fra lingua nazionale e dialetto, che ricorda il rapporto fra spagnolo e lingue indigene, alla passione per l’India, presente in José Vasconcelos ed in Octavio Paz, all’amore per il sud del mondo, alla vita delle borgate romane che non possono non evocare le immense periferie delle città-mostro, Città del Messico, ma anche Lima, Buenos Aires, Rio de Janeiro, ecc. ecc. Insomma Pasolini è l’inquietante fantasma, il “reazionario di sinistra” che aleggia sui rottami della modernità sia italiana sia messicana.

Domínguez conosce molto bene le forme del “saggio breve”, arricchito con la straordinaria cultura non solo sulla letteratura italiana di cui è dotato. Tratta con ironia e passione la materia di cui si occupa, dando alla scrittura un ritmo narrativo – molto comune negli intellettuali latinoamericani – che ricorda più la tradizione della retorica forense che il saggio “scientifico” presente nella cultura europea. Un libro che può essere letto ad alta voce in tutti i sensi e che sorprende per la scoperta di testi minori in qualche modo passati inosservati.

Per esempio, Domínguez tesse l’elogio del Libro secreto di D’Annunzio scritto quando il poeta fu ferito all’occhio destro e dovette passare mesi senza vedere il sole («uno de los más inquietante libros de su tiempo»); oppure di Maledetti Toscani di Malaparte (1956) riflessione autocritica del suo ruolo di enfant terrible del fascismo e del suo “essere italiano”, o infine dei reportage indiano di Pasolini (El color de la India 1962), scritti di viaggio definiti «una de sua prosa más bella». Proprio perché è un americano che scrive sull’Europa, mi ha crudamente sorpreso il rilievo che egli dà alla riflessione di Malaparte per il quale il genio dell’Europa nella sua massima espressione è stata la guerra: «Era a la vez el gran arte de Occidente y su consumación». In due guerre mondiali l’Europa ha dato il meglio di sé in fatto di tecnologia, eroismo, crudeltà, ecc.: due tragedie che hanno portato al suicidio dell’Europa e alla sua decadenza nel mondo; due momenti nei quali la genialità e la bestialità si sono fuse in modo vorticoso, lasciando sul campo milioni di morti.

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